Le diseguaglianze stanno aumentando nei maggiori paesi industriali da un quarto di secolo, più o meno. Da più di trent’anni in Gran Bretagna e negli Stati Uniti; da più di un decennio in Europa, con una brusca accelerazione dopo la crisi finanziaria. Le condizioni di lavoro, la retribuzione e i diritti dei lavoratori stanno peggiorando, con varie modalità, più o meno dalle stesse date. Nei paesi di nuova industrializzazione le tendenze sono diverse, qualche volta opposte. In Brasile il coefficiente di Gini, un indicatore della diseguaglianza complessiva di un paese, diminuisce, da molto alto che era (cioè la diseguaglianza si riduce), mentre negli Stati Uniti cresce, e di molto. In Sudafrica, malgrado la democrazia e la fine dell’apartheid, e Nelson Mandela, il coefficiente di Gini resta solidamente fermo: tra i più alti, se non il più alto, del mondo. Gli scioperi sono numerosi e drammatici nei paesi che si industrializzano. Anche in Sudafrica, o in Kazakhstan, dove gli sparano addosso. Si fanno, simbolici, solo nelle fabbriche chiuse, dove manca il lavoro, ma il livello di vita resta molto più alto, malgrado il peggioramento, di quello dei paesi poveri. Dai paesi veramente poveri (e dittatoriali), come l’Eritrea, uguali o diseguali che siano, i giovani scappano; spesso per venire a morire nel deserto, nelle galere dei paesi che attraversano o, con maggiore evidenza, in mare.
Si può sostenere -e lo sostengono autori importanti- che è la diseguaglianza, il trasferimento del lavoro nei paesi dove non ci sono diritti, che ha provocato la crisi, e non la crisi che ha provocato la diseguaglianza. Questa tesi mi sembra molto fondata. Ma altri sviluppi sono ancora in corso. Il mondo è intrinsecamente multiforme e multicausale. E le misure statistiche sono lente e incerte. Esistono varie serie dei coefficienti di Gini (dell’Onu, della Banca Mondiale, della Cia) simili ma non identiche. Perciò è prudente citare solo gli ordini di grandezza. Come sono andate veramente le cose lo capirà chi ci sarà, tra qualche decennio. Quello che si può fare è sottolineare alcune tendenze indubbie, di cui si parla poco, e alcune novità, non bene assestate ma non più solo ipotetiche. E mettere in risalto alcuni episodi di cui si parla anche molto, ma senza far notare che ci riguardano direttamente; che sono un caso notevole di un fenomeno globale.
La diseguaglianza nel reddito
A lungo ha prevalso la ottimistica convinzione che la ricchezza, l’industria e la democrazia portassero uguaglianza. Erano i paesi del terzo mondo ad avere coefficienti alti (0 è il minimo, per la perfetta uguaglianza di reddito di tutti; 100 il massimo, quando uno solo incassa tutto il reddito disponibile di un paese). Gli Stati Uniti, che avevano un coefficiente sopra 50 nel 1930, erano arrivati a sfiorare 38 nel 1970. Ma poi ricchezza e industria si sono separati. Nel 2010 il coefficiente per gli Stati Uniti era cresciuto di quasi 10 punti e superava 46. Il Sudafrica, a seconda della fonte e dei dettagli -lordo, netto- si muove tra 65 e 75.
Come ordine di grandezza si può dire che ci sono paesi, come il Sudafrica e altri paesi africani attestati intorno a 70; paesi come Stati Uniti e Cina attestati poco sotto 50; paesi attestati intorno ai 30, come la Germania, e paesi come la Danimarca, la Svezia, la Norvegia, poco sopra 25. Ma la tendenza, come per gli Stati Uniti, è a crescere. La Germania dal ’94 al 2010 è passata da 24 a 29 (www.inequalitywatch.eu); la Svezia è poco sopra 25, ma era poco sopra 20. Lo stesso è avvenuto, con qualche differenza di andamento, in Finlandia (www.vm.fi).
In Europa, non solo in Italia, sono ricomparsi i lavoratori poveri. Preferenzialmente precari e immigrati, categorie che in parte si sovrappongono. In Europa la ricomparsa dei lavoratori poveri è stata più ordinata, regolata. L’Italia ha cercato di imitare la deregolazione tedesca di Schroeder, in maniera più confusa e, alla fine, catastrofica. La divaricazione dei redditi, che in Italia avviene in un contesto di riduzione del reddito medio da vari anni, non è isolata. Altri aspetti della vita umana peggiorano per molti.
La differenza nel morire
La tendenza all’aumento della durata media della vita, cioè dell’attesa di vita alla nascita, è solida da molti anni, con una maggiore durata per le donne. La differenza maggiore tra donne e uomini, di circa 11 anni, è quella dei paesi già membri dell’Unione sovietica. Negli ultimi anni, però, in Europa, e anche in Italia, la differenza si sta riducendo perché la vita media delle donne ha smesso di crescere. Negli Stati Uniti addirittura ha cominciato a diminuire sensibilmente. Per quel che riguarda l’aumento della durata media della vita, negli ultimi trent’anni l’inversione maggiore è stata quella dell’Urss, cominciata nella seconda metà degli anni Settanta, proseguita, con qualche oscillazione, dopo il ’90, con una modesta ripresa, forse, negli ultimi cinque anni, senza intaccare però la differenza tra donne e uomini. In generale, però, questa differenza si sta riducendo: la durata media della vita delle donne, da qualche anno ha smesso di crescere (mentre quella degli uomini cresce ancora). In un caso importante, gli Stati Uniti, sta diminuendo. Un dettaglio importante dal punto di vista della diseguaglianza è che la differenza della durata della vita per classi sociali, anche nei paesi in cui quella generale cresce, è aumentata di vari anni. Perché sia aumentata non è facile da dire perché ci si ammala e si muore per molte cause: per incidenti sul lavoro e malattie da lavoro; per povertà, materiale e culturale; per cause ambientali, come a Casale, nella terra dei fuochi, a Taranto; per abitudini alimentari e stili di vita. Quello che è sicuro è che, in Italia, ci sono segni di aumento della mortalità delle cinquantenni e che la maggiore mortalità dei lavoratori manuali prosegue dopo il pensionamento ed è aumentata negli ultimi anni. In Italia gli epidemiologi, in particolare Giuseppe Costa, hanno lavorato molto sulla mortalità differenziale. Carlo Lallo (Life expectancy after retirement by type of job: a comparison between managers and workers in Italy) ha confrontato l’attesa di vita, gli incidenti e i bilanci pensionistici degli iscritti al Fondo previdenziale dei lavoratori dipendenti e degli iscritti all’Inpdai, cioè i dirigenti delle aziende industriali. Ha calcolato che la differenza di attesa di vita a 64 anni tra dirigenti e lavoratori dipendenti, che era di 1,75 anni nel 2004, era salita a 3,35 nel 2009; e che, per la differenza delle norme di contribuzione e per la diversa durata del pensionamento, ogni coorte di pensionati già lavoratori dipendenti regala a tutti gli altri 2,7 miliardi di euro, mentre ogni coorte di pensionati già dirigenti riceve in regalo mezzo miliardo di euro, se l’età di pensionamento è fissata a 64 anni (adesso è fissata, con qualche variazione, a 67; i regali, dati e ricevuti, crescono). È molto interessante, e pertinente per valutare l’operato del ministro Elsa Fornero, anche la statistica degli incidenti per età e settore, che riguarda però l’Unione Europea nel 2001. Gli incidenti (per 100.000 lavoratori per anno) sono 2,5 tra i 18 e i 24 anni; 3,2 tra i 25 e i 34; 3,8 tra i 35 e i 44; 5,1 tra 45 e i 54; 7,5 tra i 55 e i 64 (Work an health in the EU. A statistical portrait. Ilo, EC, Eurostat, 2003). I settori, per ordine di frequenza degli incidenti, da 12 a 1, per 100.000 e per anno, sono agricoltura, costruzioni, manifatture varie, elettricità, servizi finanziari. Non si può alzare indefinitamente l’età di pensione senza costi, umani ed economici.
Qualche caso di cui si parla molto
Il lavoro di Carlo Lallo prende in esame due gruppi: i lavoratori dipendenti e i dirigenti dell’industria, molto importanti. Ma, ovviamente, non può analizzare cosa succede al fondo, fuori del sistema delle garanzie, tra quelli che versano i contributi al fondo dei lavoratori precari. Per loro non solo è incerta la situazione economica, ma possono comparire norme che vincolano la vita del lavoratore anche fuori dell’orario di lavoro e non gli danno nessuna garanzia. Per gli aspetti economici basti pensare alle sorprese fiscali quando si è costretti a cumulare più di un rapporto di lavoro; alla onerosità dei ricongiungimenti dei contributi accumulati in più di un fondo; alla incertezza della data e delle modalità del pagamento, a suo tempo, della pensione. Per i pensionati che hanno fatto lavori regolari retribuiti è chiaro che si tratta di versamenti a fondo perduto. Ma gli altri? A che età e a che condizioni potranno ricevere le mensilità della capitalizzazione dei loro contributi versati a un fondo che per ora funziona da bancomat per tutti i pagamenti, pensionistici e assistenziali, dell’Inps?
In quanto agli obblighi è su tutti i giornali il caso Amazon in Germania perché usava sorveglianti in odore di neonazismo. Ma Amazon sta anche a Piacenza e tratta i dipendenti in modi non molto diversi (www.connessioniprecarie.org).
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