Cari amici,
parlare della Cina presenta alcune difficoltà inusuali, rispetto al parlare di altri posti. Il controllo sull’informazione, la violenza della censura e della propaganda, fanno sì che tutto diventi uno schierarsi costante: come e cosa si scrive viene valutato in quanto presa di posizione a favore, o contro la Cina. Così come se una notizia, o un’impressione, non fossero altro che dei voti pro o contro, un "da che parte stai?” costante. Scrivi di scandali alimentari, di repressione dei diritti umani, di disastro ambientale, o di operai che prendono 150 euro al mese? Beh, sei "anti-cinese”, ovvio. Se poi scrivi di Tibet e Xinjiang, parlando di sofferenza umana e distruzione culturale, allora, sei chiaramente alla ricerca disperata solo di temi negativi tramite i quali denigrare il Paese.
Impossibile non interiorizzare questo giudizio costante, e così a volte ci si sofferma a pensare: come posso scrivere una storia "positiva”? Di cosa potrei parlare? In tutta onestà, non credo che succeda rispetto ad altri Paesi. Ma se questo assurdo riflesso non fosse già abbastanza, ecco che lo stesso governo cinese ormai si sente sempre più sicuro di sé nel controllare quello che della Cina può essere detto all’esterno. Così, nelle ultime settimane ci sono stati gli ennesimi giri di vite sui visti che vengono rilasciati ai corrispondenti esteri ­e già alcuni sono stati sbattuti fuori, senza nemmeno una spiegazione. L’effetto che questo produce, su praticamente tutti, è un’autocensura molto accentuata, deleteria. Ma per chi non si autocensura, niente paura: le ambasciate cinesi interverranno! Così, ci sono state serissime rimostranze diplomatiche contro la Spagna, dopo che un programma comico televisivo ha mandato in onda uno sketch dove un attore si era messo un cappellino con il codino, come i cinesi sotto la dinastia Qing, e faceva una serie di idiozie sul set di un ristorante cinese. Uno sketch stupido, non fraintendetemi, ma che davvero l’Ambasciata debba scomodarsi per andare a dire che una serie di battute un po’ cretine, più provinciali che altro, sono "offensive per tutti i cinesi” pretendendo scuse ufficiali? Poi, il Colbert Show, un talk show comico in America, parlando del problema del debito Usa detenuto dalla Cina, chiede a un bambino di otto anni come andrebbe risolto il problema, e lui risponde con la serietà dei bambini di otto anni che si dovrebbero "ammazzare tutti i cinesi”. Invece di inorridire pensando alla tirata d’orecchi che si meriterebbe il piccolo, ecco manifestazioni e rimostranze ufficiali, perché, di nuovo, "tutti i cinesi” sarebbero stati offesi ed oltraggiati. Ripeto, non vorrei essere fraintesa: ma arrivare a voler controllare tutto in questo modo, non, per esempio, in modo positivo, educativo, o rispondendo scherzo per scherzo, ma a suon di "offesi!” e lettere aperte dall’ambasciata, è davvero robaccia. E poi, vi farei vedere il ruolo affidato agli "stranieri” (categoria stagna: non si può mai diventare cinesi, o anche residenti permanenti, anche se si è nati in Cina, anche se ci si vive per trent’anni) alla televisione cinese: si può essere scimmie ammaestrate, che fanno sfoggio di parlare la lingua e conoscere la cultura, o avere ruoli per lo più negativi nei film, tipo ­colonialisti col nasone, sciupafemmine all’assalto, e poco altro. Ai talk show politici c’è spesso l’esperto straniero, ma è talmente chiuso in una camicia di forza di censura che, di nuovo, è raro non faccia la figura del cretino, o del pappagallo ammaestrato. Insomma, in questo controllare ossessivo di chi dice cosa, la stampa in lingua cinese fuori dalla Cina, come quella di Hong Kong e di Taiwan, per intenderci, sta diventando sempre meno indipendente. Così, Hong Kong è ancora sotto lo shock per la rapidità con cui il direttore del "Ming Pao”, uno dei principali quotidiani, è stato sostituito con un sino-malese pro-governo di Pechino. Questo, dopo che la radio pubblica locale è stata
ripetutamente criticata dal contingente pro-governativo per una copertura non sufficientemente elogiante di Pechino, ritrovandosi con i fondi tagliati. A Taiwan, uno dopo l’altro, i grandi quotidiani vengono comprati da persone con grossi interessi economici in Cina, o le loro azioni vengono comprate da imprenditori cinesi fedeli al governo. Non vi sarà sfuggito quello che voleva comprarsi il "New York Times”, Chen Guangbiao, che nella motivazione mette proprio che così il giornale comincerebbe a scrivere più "notizie positive” sulla Cina,­ dimostrando una volta di più la totale incomprensione dei media liberi. In tutto questo, nessuno sa cosa fare: il vice-presidente americano ha detto che maltrattare la stampa estera comporterà "conseguenze”, senza specificare quali o fare un seppur piccolo sospiro quando Austin Ramzy, del "New York Times”, è stato costretto a fine gennaio a fare le valigie per mancato rinnovo del visto. A chi prova a dire: "E se cominciassimo anche noi a centellinare visti, dato che i giornalisti cinesi all’estero sono tutti parte di media controllati dal Partito?” viene risposto che questo è impossibile, che "noi” non siamo come "loro”, e che la stampa deve essere libera. E quindi, come si fa?
Ilaria Maria Sala