Come nasce il Gcmhp e di cosa si occupa?
Il Gaza Community Mental Health Programme (Centro per la Salute Mentale di Gaza) è stato fondato nel 1990, durante la prima Intifada. Ci occupiamo innanzitutto di bambini traumatizzati, donne vittime di violenza domestica, e uomini che hanno subito torture.
Oggi abbiamo nove centri nella Striscia di Gaza e 220 persone impegnate. C’è un Dipartimento per l’educazione che si occupa della formazione del nostro staff e di operatori esterni che vogliano lavorare nel campo dell’aiuto psicologico, fornendo anche un post-diploma in salute mentale e diritti umani. Formiamo anche gli ufficiali della sicurezza dell’Autorità Palestinese sui diritti umani.
Offriamo corsi a medici e altri professionisti. C’è un centro di ricerca e documentazione che esegue un monitoraggio costante dell’area sul piano dei traumi e la violenza, pubblicando un bollettino periodico. Abbiamo infine un dipartimento di pubbliche relazioni che si occupa delle varie campagne avviate contro la tortura o contro la violenza ai bambini e alle donne, producendo materiale divulgativo, video, ecc. Organizziamo infine conferenze, sia nazionali che internazionali, sempre sui temi dei diritti umani e la salute mentale di donne, bambini e profughi in generale.
Qual è oggi la situazione, ovvero come stanno i palestinesi?
Evidentemente oggi la situazione è terribile, molto peggiore rispetto al passato. C’è un contesto di grave deprivazione, povertà, disagio, violenza, totale assenza di speranza; sul piano politico prevale un senso di disincanto e disillusione, aggravato da una crescente delusione verso la leadership e il processo politico.
Oggi a Gaza tutti, ogni singolo individuo, hanno avuto un’esperienza traumatica in qualche modo, dal bambino traumatizzato dal rumore di un F16 che lancia bombe dal cielo alla vera e propria tortura, alla violenza; il 33% dei nostri bambini soffre di post traumatic stress disorders; il 24% dei bambini di 12 anni crede che la cosa migliore sia diventare un martire, ossia morire. Molti bambini smettono di andare a scuola, spesso perché hanno paura, diventano proprio fobici, temono di non trovare la casa o i genitori al loro ritorno. C’è proprio un diffuso rifiuto della scuola.
Le donne poi spesso hanno dovuto sostituire il ruolo e la figura degli uomini e questo rende tutto molto difficile, perché non ce la fanno a essere madri, mogli, sorelle, e anche padri, neanche sul piano materiale. Molte donne sono ridotte a livelli di povertà assoluta.
C’è poi il problema di un sovraffollamento che minaccia lo stato di salute generale; i servizi sono carenti. Lo stesso sistema educativo è incapace di offrire un servizio adeguato, innanzitutto per la povertà delle risorse.
Insomma la situazione oggi è di una miseria indicibile.
Sul piano psicologico sta succedendo qualcosa di molto inquietante. Tu hai parlato di un processo di identificazione con l’aggressore che coinvolge bambini e adulti e che col tempo cambia forme. Puoi spiegarci?
Io sono convinto che il ciclo di violenza avviato si trasmetta da una generazione all’altra, da un membro della famiglia ad un altro. Ma può passare anche da una nazione all’altra.
Oggi in Israele e Palestina stiamo diventando un laboratorio tragicamente interessante da questo punto di vista.
Durante la prima Intifada tanti bambini cominciarono a mettere in atto dinamiche peculiari, inedite. Fummo così costretti ad avviare delle indagini. Ebbene, secondo i nostri studi, risultò intanto che quasi il 55% dei ragazzini aveva assistito al pestaggio del padre. Quando accade un fatto del genere l’immagine del padre, il simbolo del potere, viene distrutta e, quasi fisiologicamente -è un processo naturale e necessario- i bambini devono sostituirla, immediatamente. E’ un processo inconscio. Ebbene, molti bambini palestinesi trasferirono allora l’identificazione dal padre -dimostratosi impotente- a un ...[continua]
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