Eyad El Sarraj, psichiatra, fondatore e direttore del Community Mental Health Programme di Gaza (Gcmhp), è membro della Commissione per i Diritti Umani in Palestina (posizione che nel 1998 ha portato al suo arresto da parte dell’Olp, in seguito alle aperte critiche volte all’Autorità palestinese) e del Centro Internazionale per la Riabilitazione delle Vittime di Tortura. Oggi il suo impegno primario è teso alla riabilitazione della popolazione palestinese, con particolare attenzione ai bambini e adolescenti traumatizzati, e ai loro modelli educativi.
Come nasce il Gcmhp e di cosa si occupa?
Il Gaza Community Mental Health Programme (Centro per la Salute Mentale di Gaza) è stato fondato nel 1990, durante la prima Intifada. Ci occupiamo innanzitutto di bambini traumatizzati, donne vittime di violenza domestica, e uomini che hanno subito torture.
Oggi abbiamo nove centri nella Striscia di Gaza e 220 persone impegnate. C’è un Dipartimento per l’educazione che si occupa della formazione del nostro staff e di operatori esterni che vogliano lavorare nel campo dell’aiuto psicologico, fornendo anche un post-diploma in salute mentale e diritti umani. Formiamo anche gli ufficiali della sicurezza dell’Autorità Palestinese sui diritti umani.
Offriamo corsi a medici e altri professionisti. C’è un centro di ricerca e documentazione che esegue un monitoraggio costante dell’area sul piano dei traumi e la violenza, pubblicando un bollettino periodico. Abbiamo infine un dipartimento di pubbliche relazioni che si occupa delle varie campagne avviate contro la tortura o contro la violenza ai bambini e alle donne, producendo materiale divulgativo, video, ecc. Organizziamo infine conferenze, sia nazionali che internazionali, sempre sui temi dei diritti umani e la salute mentale di donne, bambini e profughi in generale.
Qual è oggi la situazione, ovvero come stanno i palestinesi?
Evidentemente oggi la situazione è terribile, molto peggiore rispetto al passato. C’è un contesto di grave deprivazione, povertà, disagio, violenza, totale assenza di speranza; sul piano politico prevale un senso di disincanto e disillusione, aggravato da una crescente delusione verso la leadership e il processo politico.
Oggi a Gaza tutti, ogni singolo individuo, hanno avuto un’esperienza traumatica in qualche modo, dal bambino traumatizzato dal rumore di un F16 che lancia bombe dal cielo alla vera e propria tortura, alla violenza; il 33% dei nostri bambini soffre di post traumatic stress disorders; il 24% dei bambini di 12 anni crede che la cosa migliore sia diventare un martire, ossia morire. Molti bambini smettono di andare a scuola, spesso perché hanno paura, diventano proprio fobici, temono di non trovare la casa o i genitori al loro ritorno. C’è proprio un diffuso rifiuto della scuola.
Le donne poi spesso hanno dovuto sostituire il ruolo e la figura degli uomini e questo rende tutto molto difficile, perché non ce la fanno a essere madri, mogli, sorelle, e anche padri, neanche sul piano materiale. Molte donne sono ridotte a livelli di povertà assoluta.
C’è poi il problema di un sovraffollamento che minaccia lo stato di salute generale; i servizi sono carenti. Lo stesso sistema educativo è incapace di offrire un servizio adeguato, innanzitutto per la povertà delle risorse.
Insomma la situazione oggi è di una miseria indicibile.
Sul piano psicologico sta succedendo qualcosa di molto inquietante. Tu hai parlato di un processo di identificazione con l’aggressore che coinvolge bambini e adulti e che col tempo cambia forme. Puoi spiegarci?
Io sono convinto che il ciclo di violenza avviato si trasmetta da una generazione all’altra, da un membro della famiglia ad un altro. Ma può passare anche da una nazione all’altra.
Oggi in Israele e Palestina stiamo diventando un laboratorio tragicamente interessante da questo punto di vista.
Durante la prima Intifada tanti bambini cominciarono a mettere in atto dinamiche peculiari, inedite. Fummo così costretti ad avviare delle indagini. Ebbene, secondo i nostri studi, risultò intanto che quasi il 55% dei ragazzini aveva assistito al pestaggio del padre. Quando accade un fatto del genere l’immagine del padre, il simbolo del potere, viene distrutta e, quasi fisiologicamente -è un processo naturale e necessario- i bambini devono sostituirla, immediatamente. E’ un processo inconscio. Ebbene, molti bambini palestinesi trasferirono allora l’identificazione dal padre -dimostratosi impotente- a un nuovo simbolo di potere che in quel caso era il soldato israeliano. Così quando si mettevano a rappresentare “l’ebreo e l’arabo”, un gioco comune, molti bambini palestinesi preferivano assumere il ruolo dell’ebreo, perché era il potente, il vincente.
Ma questa scelta è evidentemente frutto di un processo traumatico: ti stai identificando col nemico, non può essere indolore. Questo infatti ha poi portato a una reazione violenta, a un rigetto.
Con gli anni questi stessi bambini hanno però continuato a cercare un sostituto del padre. Avvicinandosi ai 18 anni, all’età adulta, alcuni di questi hanno trovato un movimento, Hamas, che ha offerto loro un nuovo processo di identificazione, con un nuovo padre. Un padre tra l’altro direttamente legato a Dio.
Ma potrei fare altri esempi. Molti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane sono stati torturati. Quando l’autorità palestinese è salita al potere ha reclutato molti di questi ex detenuti, torturati nelle prigioni israeliane, che sono così diventati ufficiali dell’Olp. Alcuni di questi sono diventati a loro volta dei torturatori.
Quando sono stato arrestato dall’Anp per aver denunciato la violazione dei diritti umani, mi sono trovato in prigione con alcuni membri di Hamas e Jihad. Un giorno ho potuto assistere a una sorta di interrogatorio nella cella accanto. L’ufficiale palestinese stava chiedendo informazioni al detenuto palestinese. Io potevo sentire solo le domande, non seguiva alcuna risposta. L’ufficiale ha iniziato ad irritarsi e ad alzare il tono della voce, fino a che ha cominciato a urlare e al culmine della rabbia -non potevo credere alle mie orecchie- si è messo a gridare in ebraico.
Per me questo ha rappresentato una tragica dimostrazione del processo di identificazione con l’aggressore. Quella guardia, improvvisamente, era diventata il torturatore israeliano. Aveva assunto la sua identità.
Questo è un processo da comprendere e da prendere in seria considerazione, perché è esattamente quanto è accaduto agli ebrei. Alcuni di essi sembrano infatti aver introiettato l’immagine del nazista, del nemico, dentro di sé, per poi rigettarla diventando aggressivi verso gli altri, verso i palestinesi.
Gli stessi palestinesi hanno inglobato dentro di sé così tanto del carattere degli israeliani, come forma di identificazione con l’aggressore, fino a diventare anch’essi aggressivi verso se stessi e verso gli altri. E oggi il processo, la contaminazione, continua. Una nazione che infetta l’altra e così via.
Credi ci sia una qualche forma di consapevolezza tra gli israeliani rispetto a tutto questo?
Il processo di identificazione con l’aggressore è assolutamente inconscio.
Certo questo non significa che nessuno ne sappia niente. Ci sono persone che lo hanno studiato e che se ne occupano. Molti ebrei sono passati attraverso tutto questo superandolo, tornando a essere “normali”. Ma molti di loro, inconsciamente, collettivamente, hanno adottato questa immagine di potere del nazista…
Ti farò un altro esempio. Il sindaco di una città del nord di Israele, durante la prima Intifada, in un discorso pubblico, disse: “Non voglio palestinesi qui. Chi oserà entrare verrà marchiato sulla spalla”; esattamente ciò che i nazisti avevano fatto agli ebrei.
Una volta il capo dello staff dei servizi israeliani ha chiamato i palestinesi “serpenti”. Di nuovo come i nazisti facevano con gli ebrei chiamandoli maiali, o con altri nomi di animali. E molti altri israeliani dell’estrema destra si sono espressi con questi termini parlando dei palestinesi, e casomai erano essi stessi dei sopravvissuti.
Potrei farti talmente tanti esempi di questo processo in corso nella società israeliana…
Tuttavia tu sostieni che rispetto a due degli elementi fondanti di una identità equilibrata, sana, ossia la casa e la figura del padre, c’è stata invece un’azione sistematica…
E’ così. Per me tuttavia è difficile rispondere a quali siano le ragioni che hanno spinto gli israeliani a compiere tali azioni, che faccio fatica a non definire male puro. Come umiliare, picchiare un padre davanti al figlio.
Noi abbiamo cercato di capire, abbiamo compiuto degli studi. Perché all’inizio sembrava si trattasse di casi sporadici, ma poi abbiamo compiuto un’indagine su 3000 bambini e abbiamo scoperto che circa il 50% di loro era passato attraverso questa esperienza, che quindi non poteva che essere giudicata frutto di un’azione sistematica. Il 50% di 3000 bambini non poteva più essere definito caso sporadico.
Poi c’è la questione della demolizione delle case. A partire dal ’48 i palestinesi sono diventati profughi, hanno perso le loro case, che è un’esperienza altamente traumatica. La stessa nuova generazione, che non ha vissuto direttamente questa perdita, attraverso i ricordi di nonni e genitori sa cos’è accaduto, conosce il tasso di sofferenza vissuto; inoltre dopo il ’67 altri palestinesi sono passati attraverso questo trauma, la perdita della propria casa.
Ora Israele non ha ancora terminato quest’azione di demolizione delle case dei palestinesi. In nome della sicurezza, di una sorta di licenza, del pericolo del terrorismo, non ha mai smesso di demolire le case dei palestinesi. A volte poi vengono compiute operazioni in larga scala; nelle ultime due settimane hanno distrutto 150 case a Rafah. La ragione che sta dietro è definitivamente psicologica: Israele, questo governo estremista, non vuole vedere case palestinesi. Nel ’48 hanno letteralmente cancellato interi villaggi; qualcosa come 400 villaggi sono stati eliminati dalla faccia della terra. E sembra non sia ancora finita. Sharon l’ha anche detto apertamente: “La guerra d’indipendenza del ’48 non è ancora finita”. Portarla a termine -questo lui non l’ha detto- vuol dire allora che si dovranno distruggere tutte le case dei palestinesi.
Dal punto di vista dei palestinesi questo significa che noi siamo costretti a ripetere l’esperienza, il trauma, del ’48 e a vivere in uno stato di precarietà e insicurezza: oggi abbiamo una casa, ma domani non è detto ci sarà ancora…
A mio avviso, questo è esattamente ciò a cui il governo israeliano sta puntando: metterci in uno stato di tale insicurezza e vulnerabilità che alla fine ce ne andremo. Volontariamente. Una pulizia etnica volontaria, una deportazione volontaria, così la chiamano.
Tu hai firmato un appello di condanna rispetto agli attentati suicidi. Tuttavia sottolinei che queste persone non possono essere denigrate. Cosa significa?
E’ impossibile, per qualsiasi palestinese, condannare i martiri. Rifiutiamo anche di chiamarli attentatori suicidi, li chiamiamo martiri; perché è impossibile, per chiunque combatta in qualsiasi guerra, disprezzare chi combatte nelle proprie truppe.
In qualsiasi luogo nel mondo si rende onore ai propri soldati; le statue al milite ignoto sono presenti dappertutto.
Anche negli Stati Uniti, fuori dalla Casa Bianca, c’è un memoriale dei soldati morti durante la guerra in Vietnam. Si rende loro onore. Per molti americani quella è stata una guerra sporca, terribile, sbagliata e tuttavia non possono condannare quei soldati.
Ecco, per noi, i palestinesi che compiono queste azioni diventando dei martiri, sono i nostri soldati. Non possiamo condannarli. Possiamo non essere d’accordo con loro, per tanti motivi. Sul piano politico, perché sono azioni controproducenti; sul piano dei diritti umani, perché vengono uccisi dei civili; sul piano morale perché non è permesso; anche sul piano religioso, perché uno dei doveri dell’islam è di proteggere le donne e i bambini in tempo di guerra.
Allora si può discutere e argomentare rispetto a tutto ciò, ma non ci si può chiedere di condannare queste persone. Tra l’altro nella nostra società chi sacrifica la propria vita per il bene della nazione viene elevato al rango divino, diventa una persona santa, e nessuno la può toccare. I martiri sono più “sacri” di Yasser Arafat, come di qualunque altro palestinese. Ripeto, diventano dei santi.
Per questo non possiamo accettare che George Bush dica che non sono martiri, bensì assassini. Noi consideriamo lui un assassino, consideriamo Sharon un assassino, consideriamo Arafat un assassino. Ma non queste persone, che per noi sono dei martiri.
Qual è il sostegno della popolazione oggi per l’autorità palestinese? Data la delusione ormai generale perché non si riesce a sostituirla?
I palestinesi oggi si trovano di fronte a un dilemma. L’autorità palestinese non ha più l’appoggio popolare. Ma allo stesso tempo è l’unico orizzonte che conosciamo in quanto società minacciata dall’esterno. E quando ti senti minacciato da un pericolo esterno sei portato ad appoggiarti a qualcosa che almeno in teoria ti possa proteggere. Hai bisogno di tracciare una linea e questa oggi è l’autorità palestinese. Noi sappiamo che questa linea è molto fragile e anch’essa minacciosa, insicura, ma è l’unica che abbiamo.
Resta il fatto che l’autorità palestinese ha perso popolarità molto tempo fa a causa della corruzione, del malgoverno, del non rispetto delle leggi e dei principi democratici; questa direzione inoltre non ha mai trasmesso alla gente un messaggio chiaro. Direi che non c’è quasi comunicazione tra i due poli. Infatti la gente è ormai alienata dalla sua leadership, tuttavia, di nuovo, proprio a causa della minaccia esterna, ci si compatta attorno all’autorità palestinese.
Ora, questa è anche la ragione per cui oggi non siamo in grado di cambiarla. Perché ci sentiamo mortalmente minacciati dagli israeliani.
Se si arrivasse alla pace, e quindi al necessario processo di democratizzazione, il ricambio sarebbe inevitabile perché c’è ormai una larga fascia di popolazione che vuole avviarsi su questa strada, innanzitutto con un ricambio nei vertici.
Ma evidentemente oggi ancora non siamo in grado di farlo, nemmeno sul piano pratico. Voglio dire: oggi non possiamo votare, non possiamo spostarci, non abbiamo libertà di movimento. C’è proprio un’impossibilità di fatto. E’ anche per questo che non possiamo cambiare leadership fintanto che perdura questa situazione.
E lo stesso vale per gli israeliani: non possono permettersi di sostituire Sharon perché c’è una guerra. In Israele oggi sono in molti a opporsi a Sharon, innanzitutto perché non ha portato la pace e la sicurezza promesse, ma non possono cambiarlo, perché stanno subendo un attacco.
Ecco, nonostante Israele sia una democrazia, certo solo per gli ebrei, ma comunque una democrazia, gli israeliani non possono cambiare la propria leadership. Allo stesso modo noi non possiamo deporre Arafat.
Perché ogni volta che c’è un’aggressione violenta di una parte contro l’altra, la leadership del versante attaccato acquista maggiore potere. Così Arafat è diventato molto più potente, almeno sul piano emotivo, irrazionale, per i palestinesi, proprio nel momento in cui è stato attaccato, assediato e umiliato. E quando si esprime pubblicamente la volontà di ucciderlo o espellerlo non si fa che aumentare la sua popolarità. E di nuovo lo stesso accade con Sharon: ogni volta che c’è un attacco contro gli israeliani, Sharon diventa più popolare.
Questo medesimo meccanismo è anche all’origine dell’accresciuta popolarità di Bush in seguito all’attacco di Bin Laden al Wtc.
Qualsiasi nazione, se viene aggredita dall’esterno, regredisce a una fase tribale, diventa una tribù.
Date queste premesse, una popolazione gravemente traumatizzata e l’assenza di una tradizione democratica, quale potrà essere il futuro del nascente Stato palestinese?
E’ vero, non abbiamo una tradizione democratica, né alcuna esperienza sul piano della costruzione di uno Stato di diritto. L’autorità palestinese ha avuto l’opportunità di avviare un tale processo, ma ha mancato completamente al suo mandato. La nostra società tradizionalmente è costituita e fondata sulla famiglia, sulla tribù, è questo il nostro orizzonte di sicurezza.
Quando è arrivata sulla scena l’autorità palestinese ha introdotto la legge e il concetto di cittadinanza. Ma poi, nei fatti, ha fallito miseramente: i nostri dirigenti si sono subito rivelati corrotti, loro per primi non hanno rispettato la legge violando impunemente i diritti umani. Così la gente ha continuato ad affidarsi ai propri riferimenti tradizionali, famiglia e tribù, finendo con il considerare l’autorità palestinese alla stregua di altre autorità, avvertite come straniere e aliene dalla gente. Quindi non c’è mai stata una vera identificazione e affidamento, se non appunto sul piano del movimento di liberazione nazionale contro Israele. Ma sul piano della società noi non ci siamo mai identificati con l’autorità palestinese.
Questo evidentemente costituisce un fattore critico per il futuro. Aggravato dal dato che ancora non esiste nel mondo arabo un’esperienza di democrazia compiuta. Dappertutto ci sono dittatori, spesso imposti dal potere coloniale o dall’America, a loro volta minacciati, ma anche fortificati, dalla presenza di Israele. Infatti strumentalizzano la minaccia di Israele per rimanere al potere continuando a reprimere la propria gente in nome di una più grande minaccia esterna. Basta osservare ciò che succede in Siria, in Egitto, in Iraq, nella stessa Palestina…
Allora, se c’è una possibilità di futuro democratico per la Palestina, la prima condizione è raggiungere la pace e una forma di tranquillità; poi verrà una fase di riconciliazione; e solo allora potrà cominciare un vero processo di democratizzazione. Io poi sono profondamente convinto che i palestinesi non potranno percorrere questa strada da soli. L’autorità palestinese che abbiamo conosciuto si è rivelata del tutto incapace di trasformarsi, è solo affamata di potere; individualmente e collettivamente in quanto parte di una stessa partigianeria. E oggi volere il potere significa essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di rimanere al comando. E infatti saranno disposti a tutto pur di sabotare un processo democratico, pena la perdita del potere; e disposti a tutto vuol dire anche a uccidere, arrestare, violare i diritti della propria gente.
Tu auspichi un ruolo più attivo da parte dell’Europa, non solo nell’immediato, ma con un piano di lungo periodo...
Io credo che un intervento dell’Europa in Medio Oriente sia un suo diritto e un suo dovere. Non solo perché la politica americana oggi è sotto l’influenza dei neoconservatori, per cui non potrà essere d’aiuto, soprattutto se la guerra in Iraq ha un esito negativo; oggi poi la presenza dei sionisti alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e al Ministero per la Difesa, che influenzano radicalmente la politica americana, è un ostacolo insormontabile, quindi loro in ogni caso non si muoveranno perché si limitano a sostenere Israele.
Quindi non resta che l’Europa. L’Europa peraltro deve rendersi conto che è un suo interesse occuparsi di questo conflitto; è una sfera di sua competenza storicamente, sul piano regionale, anche per tutelare i propri interessi, non ultimo quello di evitare ondate di immigrati; e comunque credo che ormai la soluzione di questo conflitto sia diventato un interesse mondiale, perché oggi è all’origine di tutta la violenza che minaccia il mondo, davvero, terrorismo incluso.
Io lego sicuramente l’attacco di Bin Laden alla mancata soluzione del problema israelo-palestinese e all’umiliazione che i musulmani e gli arabi sentono in quanto sconfitti.
Deve allora intervenire l’Europa, intanto aiutandoci a portare la pace nell’area attraverso truppe di interposizione tra gli israeliani e i palestinesi, per proteggere questi due popoli l’uno dall’altro, e per proteggere Israele da se stesso. A questo seguirà un’altra fase che riguarderà più prettamente i palestinesi: dovranno porre la Palestina sotto mandato e preparare i palestinesi a intraprendere un processo di costruzione delle istituzioni democratiche e di uno Stato di diritto. Dovranno rimanere cinque anni, forse anche dieci, per formare la nuova generazione, i giovani palestinesi, affinché prendano loro il controllo della Palestina.
Questa mi sembra l’unica strada che possa garantire una pace vera e duratura. Perché non ci possono essere accordi di pace tra dittatori, o tra strutture mafiose. Bisogna prima raggiungere la democrazia; ma nessuna democrazia può essere acquisita con questa autorità palestinese. Questo è certo.
Quante persone in Palestina la pensano come te?
Non lo so quanti la pensino come me. Bisognerebbe chiederlo a loro. Quando parlo con la gente in Palestina, in occasione di qualche incontro pubblico, ricevo sempre molto sostegno.
Certo, quello che io vado dicendo è radicalmente critico e rappresenta anche una minaccia nei confronti dell’attuale establishment. La gente è intimidita di fronte alla possibilità di esporre pubblicamente le proprie opinioni politiche, teme minacce e rappresaglie; e tuttavia quando capita di parlare in ambiti privati, seduti ad un tavolo, mi danno tutti ragione.
Ma di nuovo non ho una risposta alla domanda che poni. Ci vorrebbe un referendum segreto. Sono sicuro che se si indicesse un referendum tra i palestinesi, sotto la supervisione di organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, la maggior parte dei palestinesi sosterrebbe questa stessa visione e volontà.
Tu negli anni ’80 vivevi e lavoravi a Londra. Quando e perché hai deciso di tornare a Gaza?
Con lo scoppio della prima Intifada, nel 1987, mi sono trovato incollato alla tv a seguire tutti i notiziari, prestando attenzione ai minimi dettagli e ho subito iniziato a sentirmi in colpa: nell’intera Striscia di Gaza non c’era uno psichiatra che potesse occuparsi dei bambini.
Davvero ho iniziato a sentirmi così colpevole che non potevo reggere oltre quello stato di impotenza; dovevo fare qualcosa; e fare qualcosa non poteva che significare tornare in Palestina, nella mia terra, a svolgere la mia professione. Gratuitamente. Ho così deciso di compiere questa scelta senza averne un ritorno materiale, ed è quello che ho fatto. Averlo fatto col cuore credo sia una delle ragioni del successo di questa impresa.
Ovviamente ne ho subito parlato con la mia famiglia, con mia moglie, e tutti mi hanno sostenuto. E’ stato fondamentale. Così sono tornato a Gaza e ho cominciato a lavorare lì.
No, non ho mai più pensato di tornare a Londra.
Vedi, oggi io posso andare dovunque per un po’, magari per scrivere o per riposarmi, o per partecipare a qualche incontro, per incontrare amici, ma la casa è la casa; e io voglio vivere e anche morire a casa mia.
Ricordo che quando iniziai, il mio motto era: “Se riesci ad aiutare anche un solo bambino palestinese al giorno a sorridere, sarà una conquista, una vittoria”. In realtà in questi anni più di un bambino al giorno ha sorriso grazie al lavoro del nostro centro. Io ormai mi occupo solo dei casi più difficili, ma la gente che abbiamo formato vede e si prende cura di questi bambini tutti i giorni; il nostro staff, che è eccellente, nelle varie sedi vede almeno cento bambini al giorno e se anche solo cinque di loro escono con un sorriso, beh è davvero un successo insperato.
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