Sì, a un dato momento ho pensato che fosse giusto, utile, parlare di questa cosa; credo siano passati i tempi in cui i malati di cancro si celavano dietro malattie varie, di solito dietro l’espressione “male incurabile”, e non ne parlavano, né con gli amici né tantomeno in pubblico. Di fatto si apprendeva sempre che qualcuno era stato malato di cancro dopo la sua morte, dal necrologio, che diceva: “stroncato da male incurabile, il tal dei tali eccetera eccetera”…
Ecco, io credo che i malati di cancro che hanno la “fortuna” di sopravvivere a lungo abbiano il dovere di parlarne. E non per fornire facili illusioni, come quei saggi che si trovano in libreria o nelle erboristerie, intitolati: “Come sono guarita dal cancro”, ma perché altri possano trovare magari nelle parole di una persona un aiuto, un modo di affrontare la malattia che a loro non è venuto in mente, non è venuto spontaneo.
Teniamo presente che la stessa dizione “male incurabile” non è più appropriata perché di fatto il cancro non è più un male incurabile. Questo va detto. Ci sono cure e modi di affrontarlo che stanno trasformando il cancro in un “male cronico”. Non vorrei essere troppo ottimista, ma sono anche i miei medici che me ne parlano. Cure sempre più personalizzate, adattate ai diversi tipi di cancro, se non riescono ancora a far guarire, riescono però ad allungare la vita del malato, cronicizzando quindi la malattia, facendola durare. E siccome è aumentata molto anche la possibilità di salvaguardare la qualità della vita di chi ha questa malattia, la tendenza a cronicizzare il male è da vedere come un fatto positivo. Per questo penso che sia meglio parlarne, per raccontare come alcune persone riescono, nonostante la malattia, a vivere in modo discreto. Questo penso sia anche il mio caso, il che non vuol dire, però, che non abbia subìto una rivoluzione totale della mia vita, del mio modo di pensare al tempo, al futuro.
La notizia è un vero trauma, perché tu non sai più che cosa hai davanti. Io ho reagito in modo quasi infantile. Quando una dottoressa dell’ospedale mi ha comunicato che gli esami erano positivi e potevano far pensare a qualcosa di canceroso, forse mi sono anche messa a piangere, però appena lei mi ha lasciato, sono corsa dall’infermiera e le ho chiesto se poteva darmi una pastiglietta di sedativo. Un’inezia rispetto alla notizia ricevuta. Il mio primo approccio di difesa è stata quella pastiglietta per non agitarmi troppo. Dopodiché è iniziata una nuova vita in cui devi trovare un modo di convivere con il male, tirando fuori tutte le energie per non lasciarti sopraffare.
Dal momento che sai, poi, vieni immediatamente trasportato in un mondo che non conoscevi prima, che è il mondo degli ospedali oncologici. Se stai in una grande città dove c’è un centro oncologico di ricerche e cura, come nel mio caso, è già una fortuna. Può non capitare a tutti, soprattutto a chi non vive in grandi città, e magari per raggiungere questi posti deve abbandonare la propria casa per mesi.
Ecco, una delle cose più fastidiose quando non si ha molto male, come nel mio caso, è questa continua ospedalizzazione, nel senso che tu vivi a casa tua, fai le tue cose, però le scadenze vere sono quelle della visita, degli esami, della cura, e quindi sulla tua agenda prima segni queste e poi eventualmente aggiungi gli impegni di lavoro, se l’hai mantenuto. Tutto dipende da quello, e non si può assolutamente fare diversamente…
Bisogna però anche dire che in questi posti i medici, e ancor più gli infermieri, in genere sono meglio che negli ospedali comuni, nel senso che veramente svolgono un lavoro difficilissimo, di responsabilità e -non è una frase banale- sempre col sorriso sulle labbra, con la parola giusta, per otto ore di seguito. Io non ho mai capito come facciano. Ammiro tantissimo queste persone. Vedono passare i malati a migliaia e però si ricordano sempre il tuo nome, o, meglio, il tuo cognome, perché non è più il tempo in cui il paziente viene chiamato nonna, nonno, oppure per nome. Si ricordano il tuo cognome, come è giusto.
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