Rosi Braidotti, nata in Italia e cresciuta in Australia, oggi vive e insegna in Olanda, presso l’Università di Utrecht, dove è professore ordinario di Women’s Studies e dirige la Netherlands Research School of Women’s Studies. Tra i suoi libri Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea (La Tartaruga 1994), Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità (Donzelli 1995), Madri, mostri, macchine (Manifestolibri 1996), Nuovi soggetti nomadi (L. Sassella 2002).

Partirei un po’ dal tema uguaglianza-differenza. A che punto siamo, soprattutto in Italia?
A che punto siamo di questa storia, di questa saga eterna? In Italia mi sembra che la questione si sia istituzionalizzata. Lo si vede chiaramente l’8 marzo: c’è ormai quello che si potrebbe definire un femminismo un po’ di Stato, con le addette ai lavori, le pari opportunità, ecc. Che la battaglia per l’uguaglianza sia riuscita a entrare nelle istituzioni non è un elemento da trascurare; ci abbiamo messo due secoli (da Mary Wollstonecraft con la sua critica a Rousseau), e anche se la lotta non è finita, l’uguaglianza si è guadagnata il suo posto e i suoi titoli di rispettabilità in quanto questione e progetto aperti.
La differenza invece è un’altra faccenda. E’ partita come una critica del discorso dell’uguaglianza, e come tutte le posizioni critiche resta molto più forte sul negativo che non sull’affermativo. Ad esempio non si può parlare di una politica della differenza, come invece si può parlare di una politica dell’uguaglianza. E quindi io la vedo come una specie di arcipelago, una costellazione molto diffusa, che va dall’affermazione della differenza quasi in chiave metafisica, essenzialista, dura (posizione che io identifico con la scuola italiana, dove si continua a parlare delle donne come di una categoria unica, con le sue differenze ben precise), al postmoderno più fluido e meno essenzialista, o de-naturalizzato; penso in particolare ai nuovi tentativi di reincarnare la differenza moltiplicandola all’infinito e collegandola a basi materialiste nuove. E’ qui che situerei un po’ il mio lavoro.
Io infatti oggi tenderei a parlare più di diversità che di differenza, perché la diversità ci permette di raggruppare le differenti differenze e di farne una costellazione più vasta e generale: quelle di sesso, di genere, di razza e di etnicità, di età e di generazione -che stanno diventando davvero molto importanti- fino ad arrivare alle differenze di specie: la specie umana, la specie animale e la specie cosiddetta vegetale; in un’epoca di neodarwinismo e di grandi rivoluzioni tecnologiche e di nuovi immaginari genetici, anche quest’ultima è una differenza notevole.
L’asse della differenza si è quindi davvero frammentato in una serie di grandi slittamenti e quelle che ne costituivano le figure classiche, la donna, il non europeo -il nero, l’ebreo, l’arabo o la popolazione coloniale- e tutto l’ordine naturale del pianeta (gli animali e le piante) non reggono più. Ormai c’è una sorta di “nomadismo” della categoria, nel senso che sono differenze in piena trasformazione ed evoluzione.
Uno dei nodi critici mi sembra resti come coniugare l’affermazione della differenza con l’universalismo e i diritti di cittadinanza…
Il discorso sui diritti ha una storia molto complessa, che riguarda le donne ma anche altri gruppi sociali marginali. Uno dei discorsi più sofisticati, più evoluti in questo campo è sicuramente quello delle donne di colore negli Stati Uniti, le quali hanno fatto una critica del concetto di diritto, di right, affermando che la filosofia dei diritti -che poi tutto sommato è una logica che attiene al liberalismo individuale, all’individualismo liberale- implica un soggetto che ha il diritto di avere dei diritti, vale a dire un soggetto che ha già quel tipo di empowerment, di posizionamento. E questo, detto da donne di colore negli Stati Uniti è particolarmente importante, perché sappiamo qual è la loro condizione, sappiamo che nelle prigioni americane ci sono un milione e mezzo-due milioni di uomini di colore, e che una volta imprigionato un cittadino americano perde il diritto di cittadinanza, quindi c’è un vero processo di disempowerment. Perciò la loro critica della logica del diritto ha una ragione molto precisa e anche una concretezza politica molto immediata.
Nel mondo femminista la questione dei diritti (si prendano ad esempio i primi testi di Luce Irigaray) è nata come critica al discorso dell’uguaglianza, che implica, a ...[continua]

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