Un fenomeno nuovo, assai vivo nella provincia di Vicenza, è l’alto numero di imprese autonome avviate da immigrati…
Sì, è vero. Prendendo i dati della Confartigianato della provincia di Vicenza, sono 711, nate tutte dopo l’entrata in vigore del Testo Unico sull’emigrazione del ’98, che ha abolito definitivamente le cosiddette “condizioni di reciprocità”. Prima, per ogni immigrato che voleva avviare un’impresa in Italia, ci doveva essere un italiano che ne avviava una nel paese di provenienza dello straniero; dopo il ’98 invece è stato sufficiente avere il permesso di soggiorno in regola, anzi, per chi avesse voluto avviare un’impresa autonoma era previsto un canale apposito.
La crescita, per alcune categorie, è stata addirittura impetuosa: parliamo del 6% di imprese avviate da stranieri. Se poi andiamo a analizzare meglio, i dati sono ancora più eclatanti. Prendendo per esempio il tasso di natalità delle imprese, vediamo che tra le aziende “neonate” quelle gestite da extracomunitari sono il 16%-18%. Stesso discorso con le classi di età: gli imprenditori intorno ai trent’anni sono quasi per un quinto stranieri.
Resta il problema della definizione del concetto di extracomunitario, specie dopo l’allargamento a venticinque dell’Unione Europea e il futuro ulteriore ampliamento che riguarderà la Romania e la Bulgaria, e, più in là, forse anche l’area balcanica. La maggior parte degli imprenditori, infatti, provengono dall’area balcanica e dall’Est europeo (Albania, Serbia, Montenegro, Croazia fino a Ucraina, Moldavia ecc.), perciò sui 20.000 stranieri iscritti all’anagrafe di Vicenza, la metà potrebbero diventare in futuro cittadini comunitari.
Inoltre compiamo spesso un errore dovuto al fatto che la fonte dei nostri dati è la Camera di Commercio, che registra il Paese di provenienza ma non la nazionalità, per cui i figli degli emigrati italiani nati all’estero (in Germania, Francia, ma anche in Somalia, in Libia, in Argentina, in Brasile o in Australia) che almeno in questo territorio sono tanti, risultano stranieri. Perciò può accadere che imprenditori con la nazionalità italiana, magari col mio stesso cognome, siano stati tranquillamente inseriti nella categoria degli extracomunitari.
Il settore maggiormente coinvolto è certamente quello edilizio, con le attività ad esso collegato: tinteggiatori, stuccatori, posatori di cartongesso, piastrellisti e, in misura minore, impiantisti. Sono presenti anche altre categorie, ma non in misura così travolgente: c’è un po’ di alimentare, un po’ di tessile, ecc.
Ma sono imprese ben radicate, in grado di durare, o sono destinate alla precarietà?
Beh, questa è l’altra faccia della medaglia. Se è impressionante la natalità, è considerevole anche la mortalità di tali imprese. Infatti i giornali, quando pubblicano quelle cifre iperboliche, di solito commettono l’errore statistico, piuttosto grossolano, di continuare a contare le imprese nate senza depennare quelle morte.
C’è poi una riflessione da fare rispetto al percorso che conduce la persona a diventare “imprenditore”: ci sono, certo, persone che hanno un’idea imprenditoriale precisa, di nicchia, e sono molto brave, ma ce ne sono altre che invece sono “indotte” a mettersi in proprio dall’ex datore di lavoro. E succede spesso. Il datore di lavoro gli dice: “Ti metti per conto tuo, ti apri una partita Iva, diventi padrone come me e io ti garantisco una certa quota di lavoro”. In questo modo, la maggior parte di loro ha un unico committente (di fatto non dovremmo nemmeno considerarli artigiani). Ovviamente in questo caso non c’è grande libertà di scelta e forse nemmeno grande consapevolezza: le persone spesso accettano anche perché pressati dalla necessità di rinnovare il permesso di soggiorno, magari è qualche mese che sono senza lavoro e sanno che il percorso per il rinnovo è senz’altro più rapido in caso di avviamento di un’attività autonoma (o almeno fino a poco tempo fa lo era). Ovviamente, in queste condizioni non è affatto detto che un lavoratore autonomo sia necessariamente un imprenditore, sia in termini di reddito che rispetto ad altri parametri, e in effetti alcuni ritengono sia più corretto definirlo lavoro indipendente anziché lavoro imprenditoriale anche perché sono assenti l’organizzazione e l’attrezzatura minime per poterlo definire tale. Ho presente il caso di un “imprenditore” che costruisce solo ed ...[continua]
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