Entrare all’Osservanza fa impressione.
Quei muri di cinta, quei caseggiati uguali, allineati, numerati, quelle inferriate rimaste a tutte le finestre. Vien da immaginare di trovarsi in un campo, qualche anno dopo la sua liberazione, se mai qualcuno avesse deciso di rimanervi. In quella libertà grande ma ormai poco importante che dà lo stato di abbandono. Osservandoli di nascosto, quegli ultimi residenti ci sembrerebbero allora fantasmi di un passato che vorremo già remotissimo.
E vien da pensare a quante volte da piccoli s’è scherzato su “Imola”. E se quello stupendo parco fosse sufficente a tenere lontano da fuori il rumore del dolore. Ma è già dimostrato che a fianco di simili concentrazioni di sofferenza si può vivere benissimo.
Che fine farà l’Osservanza? Verrebbe da dare per scontato che finché ci sono dei residenti a loro sia concessa non una, ma l’ultima parola. Ma un domani? Come dice Florence Ribot qui a fianco un posto simile suscita fantasie in tutti. Una è che un posto simile venga adibito, in qualche modo, allo studio, alla meditazione, al raccoglimento. Nel ricordo di tutte quelle donne e uomini che fra quelle mura sono stati relegati e legati per la vita.
Speriamo che comunque le autorità non ne facciano piazza pulita.


Abbiamo incontrato Francesca Farolfi e Adriana Pifferi  al reparto 5, dove, tra le altre, ha sede  l'Associazione "Cicoria", formata da donne residenti, operatrici e volontarie come Francesca Farolfi e Adriana Pifferi che vi dedicano parte del loro tempo libero.
In corsivo è il racconto di Adriana Pifferi.

Io sono entrata qui nel 1961. La psichiatria allora era diversa. La mentalità era diversa. I pazienti rimanevano qui per lunghi periodi perché i parenti, dopo averli depositati, faticavano a riportarseli a casa. Così il numero aumentava e crescevano nuovi reparti. Poi fu fatto il teatro, dove i pazienti venivano accompagnati dagli infermieri, che dovevano sempre contare chi entrava e chi usciva. Il cambiamento è avvenuto nel ‘70 quando a Villa dei Fiori si cominciò ad operare con gli ingressi e le uscite, con i pazienti che sempre più frequentemente andavano a casa e poi tornavano. Si cominciò ad abbattere i muri dove prima era tutto un muro, tutto un recinto. Così i pazienti sono sempre più diminuiti: ora ce ne sono solo 500, mentre prima erano più di 2000.
Prima il contatto esterno esisteva solo quando qualcuno poteva andare a casa; altrimenti nessuno usciva dall’Osservanza. Qui c’era tutto: il teatro, il parlatorio, si poteva ballare… Era una città chiusa: c’era la chiesa, il cinema, il negozio, il bar…
Allora era molto diverso. Ci si rapportava in modo diverso.
Adesso si usa più una protezione chimica, le persone con disturbi però ci sono ancora, ma ci sono anche altri farmaci, altri sistemi. Una volta i pazienti venivano contenuti…
Era una regola: si legavano tutti i giorni. Nella sala o nella saletta... La “sala” era il posto in cui si tenevano a letto anche di giorno, mentre al piano superiore si tenevano quelli che venivano legati anche di notte…
molti di quelli che ho conosciuto avrebbero potuto starsene tranquillamente a casa loro…
Legarli era una regola. Si doveva addirittura firmare.  Era una regola imposta, una specie di regolamento carcerario. Come dei secondini, avuta la consegna, dovevamo passare letto per letto… Si usava una fascia fornita di due bulloni alle estremità che si bloccavano con un borchia, per fissare al letto le caviglie dei pazienti più disturbati. In modo che, pur restando legati al letto, potevano scendere e muoversi. Il corpetto era invece un giacchettino corto legato dietro con due maniche lunghissime che, una volta annodate, impedivano di muovere le braccia…
La camicia di forza, insomma…
Ho visto persone che per tutto il giorno e per tutti i 365 giorni dell’anno venivano contenute per uno, due, tre, quattro, cinque anni… Io la chiamavo la tortura della mosca. Mi ricordo ancora il primo giorno che venni dentro. Era d’estate e faceva caldo. Le persone contenute, alcune della mia stessa età, avevano sempre delle mosche che gli ronzavano sopra… Quando tornai a casa mi sentii così impressionata: avevo solo 20 anni e non sapevo nemmeno cosa fosse un ospedale… Quelle signore con tutte quelle mosche che giravano attorno alla bocca, agli occhi e loro che muovevano a scatti la testa, gli occhi...
E non potevano cavarsele di torno! Mi ricordo di alcune infermiere più anziane di me che si sedevano accanto alle cont ...[continua]

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