Sarah Viola, psichiatra e specialista in Psicologia Medica, lavora a Bergamo.

Dal 2010 a oggi in Italia sono stati commessi 268 figlicidi: sei su dieci sono commessi dalle madri. È del 14 giugno la notizia del ritrovamento del corpo di Elena Del Pozzo, cinque anni, in un campo vicino a casa, nel catanese. A toglierle la vita è stata la madre 23enne, Martina Patti, che, dopo aver cercato di inscenare il rapimento della bambina, ha confessato. Dietro all’omicidio ci sarebbe la gelosia che la donna nutriva nei confronti della nuova compagna dell’ex marito, che stava legando con la bambina. Raccontando questo caso, i giornali hanno citato la sindrome di Medea. Perché?
Il mito racconta che Medea viene tradita da Giasone. Così, per vendetta, decide di fare a pezzi i loro figli, li cucina e glieli serve come piatto. La sindrome di Medea racconta un aspetto della psiche della donna che esiste, e che esisteva già nell’antica Grecia: la pulsione aggressiva. Per Medea, come per molte donne, l’esperienza d’amore, in questo caso l’amore di coppia, è un’esperienza totalizzante e in alcuni casi può succedere che la perdita dell’oggetto d’amore faccia perdere di significato tutto il resto. Un figlio diventa così un’arma “preziosissima” per colpire colui o colei che ha ferito, tradito o lasciato.
Drammi come questo omicidio avvengono quando la perdita dell’oggetto d’amore, che comporta appunto la completa perdita di significato, incontra gelosia o possessività patologiche. E i figli diventano uno strumento di vendetta per ferire l’altro. Il padre della piccola Elena del Pozzo ha infatti dichiarato che la bambina era “la cosa che amava di più”.
La sindrome di Medea non abita fortunatamente tutte le donne, ma in tutte le donne abbandonate si ravvisa quella che nel film con Margherita Buy e Luca Zingaretti “I giorni dell’abbandono” (2005) viene descritta molto bene: una posizione depressiva che si definisce come “l’anno del divano”: un periodo in cui la vita appunto appare svuotata di significato. Quando la donna viene lasciata spesso si sente immobilizzata e paralizzata da quel vuoto di senso. Può passare ore o giornate a fissare il vuoto con i figli che le dicono: “Mamma dobbiamo andare a scuola”.
Quali sono, se esistono, delle “condizioni favorevoli” perché in un contesto familiare maturi un figlicidio?
Si tratta di determinate condizioni che devono essere presenti contemporaneamente. La prima è una condizione di sostanziale dipendenza della donna dal suo sentimento d’amore -quindi dalla sua relazione di donna in un rapporto di coppia  al quale non riesce a rinunciare. Inoltre si ravvisa un atteggiamento di fragilità o un disturbo di personalità di tipo dipendente, un abbandono vissuto in maniera drammatica da una persona che non possiede gli strumenti necessari per accettare questa condizione. Infine una labilità emotivo-affettiva, per cui è facile che il figlio da elemento d’amore diventi elemento di disturbo e, quindi, appunto, strumento di vendetta.
Può spiegare perché il tanto citato “raptus” nei casi di cronaca efferati in realtà non esiste?
I segnali, i campanelli d’allarme, ci sono sempre. Non si diventa Medea da un momento all’altro.
Il concetto è banale: nessuno si sveglia una mattina e diventa un omicida. Ci sono episodi drammatici che maturano in una quotidianità che dura a volte mesi, quando non addirittura anni, e che si può evitare che finiscano in tragedia.
Il raptus non esiste: è un momento di acme, in cui la persona passa all’atto  -che è preceduto da una serie di momenti preparatori che ciascuno di noi potrebbe cogliere nei comportamenti di un suo congiunto. Si manifestano sempre dei campanelli d’allarme che precedono un fatto drammatico come un figlicidio o un femminicidio. Il problema è che quei segnali non li cogliamo o li sottovalutiamo: spesso siamo disarmati, non abbiamo strumenti.
La cura della psiche è ancora un concetto pericolosamente trascurato in Italia. Convincere una persona a curarsi non è ledere la sua libertà, anzi: è tutelare la vita sua e delle persone che le stanno intorno. Oggi le madri sono troppo spesso sole. E finché non accettiamo l’idea che anche nelle mamme esistono delle zone d’ombra, di malessere, non le aiuteremo mai. E di conseguenza non ne coglieremo i segnali e non aiuteremo i figli.
Quanto pesa l’ideale stereotipato di maternità secondo il quale deve essere necessariamente un’esperienza appagante e felice? Questo fa sì che le madri che non la vivon ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!