Allora occorre che faccia un po’ di storia della malattia, perché la fede non é che vada per conto suo, e così la malattia. La malattia é la sclerosi multipla, e sono malato da 29 anni. Il primo sintomo che ho avvertito é stato il 23 luglio 1963. Un inizio quindi molto precoce, cui ha fatto seguito uno sviluppo fortunato della malattia perché molto lento: a ricadute rovinose, durante le quali non camminavo più, succedevano periodi abbastanza lunghi di remissione. E’ chiaro che, diventando sempre più anzianotto, questi periodi di remissione sono diventati sempre più corti e più lunghi i periodi di ricaduta, ma alla fine devo dire che la mia esperienza di malattia è cresciuta piano, tanto piano che ho avuto modo di correrle dietro. In fondo non ero “un malato”, ma avevo anche la malattia. Sono riuscito a vivere la malattia come una dimensione fra le altre: che so, “mi piace dipingere e ho anche la malattia”. La malattia non ha invaso tutta la mia esperienza di fede né quella di prete. Pur zoppicando, pur faticando, sono riuscito a fare tutto ciò che la vita mi richiedeva.
E anche quando la malattia era molto forte, quando la ricaduta durava due o tre mesi, anche a livello di fede riuscivo a darle un senso, proprio nella linea della pazienza: riuscire, cioè, a non considerare tempo perso il tempo che stai fermo a casa, che sei bloccato con le gambe. Anzi, si può riuscire a farlo diventare forse il momento più produttivo perché spesso il fare rischia di farti dimenticare il tuo essere profondo.
Un’altra cosa molto importante nella mia vita è stata quella di poter vivere in questa comunità. Un’esperienza bellissima. Se cammino ancora, e non succede molto spesso dopo 29 anni, è perché in questi diciassette anni ho avuto gente che mi portava a camminare due volte la settimana. Calcolando un po’ i chilometri fatti a piedi, sono arrivato alla cifra di circa 7.000 km. Se mi muovo ancora è per questo: ho avuto accanto gente che è cresciuta insieme a me senza ridurre don Piero alla malattia. Non c’è mai stato “l’uffa” di fronte alla richiesta di aiuto, ma quest’ultima era accolta come una cosa del tutto normale. Uno che ha fame lo dice, così io devo camminare e quindi chiedo di avere una mano. Ma su un piano di parità. E per me il fatto che la comunità ti motivi alla parità con gli altri è una cosa di una bellezza unica: se da una parte gli altri danno testimonianza del loro essere profondamente inseriti in un discorso solidaristico, di fede, e ti danno una mano in maniera delicata, gentile, dall’altra parte tu devi rispondere con l’impegno a portare la tua croce, devi dare testimonianza a loro che la malattia va affrontata con dignità. C’é un dare e un avere.
E’ grazie anche a questo che in tutto questo tempo ho potuto fare anche il mio lavoro, il mio servizio di prete. Nelle fabbriche poi, dove, fra l’altro, non ci si può certo aspettare che la gente vada verso il prete. Mi dovevo muovere io, e quando andavo ancora bene giravo moltissimo, di sera andavo negli ospedali, si andava a fare gli incontri nelle case, c’era una grande attività. E se anche adesso, pur camminando molto male, posso continuare ad andare è perché all’interno delle aziende c’è qualcuno che mi dà una mano. Per esempio, proprio ieri, in una fabbrica di Cesena, essendosi persa la chiave di una porta e dovendo andare su per una scala, tre operai mi hanno portato la carrozzina. In fondo devo dire che non ho mai vissuto il dramma della paura di presentarmi agli altri, dell’umiliazione di dire “adesso come faccio?”.
Rispetto, infine, al problema della fede, è evidente che in certi momenti abbastanza pesanti, la fede è consolazione, ma anche, contemporaneamente, tragedia. Alla considerazione “beh, Dio mi vuole bene lo stesso”, si accompagna la domanda: “se mi vuol bene perché mi tratta così?”. Ma anche qui devo dire grazie al buon Dio di non aver avuto mai grosse crisi, tranne, una volta da giovane, quando sembrò che avessi non la sclerosi multipla, ma un tumore alla testa. Ero riuscito a scollare la busta che mi avevano dato per il mio medico ed avevo letto che c’era un focolaio espanso che, dagli studi fatti, voleva dire tumore. E a 21 anni pensare di avere solo altri sei mesi, o al massimo due anni, da vivere è una cosa che fa una certa impressione. Quella volta ebbi una crisi...
Poi la ...[continua]
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