Lei da tempo si interessa di metodologia della ricerca e clinica. In qualche modo studia più i medici che i pazienti, può raccontare?
Sono venuto a lavorare qui a Cuneo da quattro anni, dopo essere stato per 25 anni all’ospedale Molinette di Torino, dove mi sono occupato di vari temi riguardanti la cardiologia e dove negli ultimi 15 anni sono stato responsabile dell’aspetto medico dei trapianti di cuore -cioè, non li facevo io i trapianti di cuore ma seguivo i pazienti prima e dopo. Sono stato due anni negli Stati Uniti come ricercatore alla fine degli anni Ottanta lavorando in due ospedali diversi e acquisendo una serie di competenze sul piano della ricerca e della metodologia della ricerca.
Il mio interesse principale è sempre stata la metodologia della ricerca, la metodologia clinica, che significa come si devono seguire i pazienti, come utilizzare le informazioni scientifiche, come servirsi dei dati di laboratorio -tra l’altro una nuova opera in stesura, in collaborazione con altri miei colleghi, sarà un libro sulla diagnosi. Se dovessi descrivere l’oggetto dei miei studi, devo dire che sono stati più i medici che i pazienti. Mi sono sempre occupato di capire come i medici lavorano, come utilizzano le informazioni.
Qui a Cuneo, come primario, ho trovato un ambiente molto stimolante, ho incontrato medici bravi, competenti, per bene, con cui è stato estremamente utile avere un confronto quotidiano sui singoli casi clinici. Non avrei mai scritto questo libro se non avessi avuto questa esperienza e senza la possibilità di discutere con loro, di confrontarmi, di capire quali sono i problemi quotidiani della professione medica. Anche perché mi vengono sottoposti tutti i problemi controversi e quindi ho avuto a disposizione una ricchezza di esperienze vere. Nel libro sono descritti diversi casi clinici presi da questo genere di esperienze, alcuni avvenuti anche durante i 25 anni trascorsi all’ospedale Molinette. Racconto anche dei confronti fra me e i miei collaboratori. Facciamo in tutto due riunioni a settimana, una di tipo organizzativo e una di discussione di casi e di aggiornamento sulle novità scientifiche. Questo ci permette di mantenere il dibattito costante.
A Cuneo ho trovato un ospedale bene organizzato e ben inserito nel tessuto sociale. Una struttura di cui la città è fiera. C’è un rapporto diretto tra la città e l’ospedale, quindi c’è una grossa aspettativa da parte della popolazione che l’ospedale funzioni bene. Bisogna rispondere a questa aspettativa, bisogna dare non soltanto in termini di eccellenza, fornendo il meglio delle conoscenze scientifiche, ma occorre anche far funzionare l’ospedale per le cure di tutti i giorni.
Cosa intende con l’espressione "il malato immaginato”?
Il vero problema del sapere medico contemporaneo, nascosto, latente, sono i limiti della medicina. Perché al giorno d’oggi si parla sempre dei traguardi futuri, si dice che si vivrà fino a 130 anni, che si curerà questa e quella malattia. Ma non si riflette abbastanza su che cosa tutto questo significhi. Quando a una riunione ho sentito affermare che si potrà arrivare fino a 130 anni non mi sono trattenuto dal commentare: "Non auguro a nessuno di vivere fino a cento anni per doversi occupare della madre di 130”.
Purtroppo, un altro grande problema attuale è che tutta l’evoluzione tecnologica -che è indispensabile, fondamentale- viene però spesso utilizzata in modo non appropriato. C’è un ricorso alla tecnologia anche quando non è sufficientemente conosciuta, cioè quando non si sa esattamente quali saranno i vantaggi e i limiti. Magari dopo anni ci si rende conto, in seguito a studi adeguati, che i vantaggi prospettati non sono confermati. Nel frattempo i trattamenti sono entrati nella routine e non è più nemmeno facile tornare a farne a meno.
Il titolo del mio libro può aiutare a chiarire le motivazioni della sua stesura. Il termine "immaginato” si riferisce al malato per come viene rappresentato dai medici per dare forza e lustro alla medicina e al proprio lavoro. Allo stesso modo, ...[continua]
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