Daniele Marini è direttore della Fondazione Nord Est di Venezia e professore di Sociologia dell’educazione all’Università di Padova.

Siamo entrati nel quinto anno di crisi. Come sta reagendo il mondo delle imprese?
Quello che stiamo vivendo non è un momento congiunturale, è una fase di cambiamento strutturale, per cui non ha senso aspettare che passi perché le cose non torneranno come prima in quanto è cambiato radicalmente il contesto. Ormai viviamo in un grande condominio mondiale e tutto quello che succede ha un impatto su di noi. In questo caso un impatto negativo perché il nostro modello di sviluppo non riesce più a tenere il passo, a reggere il confronto con altri territori; non penso alla Cina, al Brasile o all’India, ma alla Francia, alla Germania che, nei decenni precedenti, hanno avviato dei processi di riforma. Noi invece, per tanti motivi, siamo rimasti sostanzialmente fermi.
Quelle che erano state le peculiarità che ci avevano consentito, negli anni d’oro, cioè gli anni Settanta, Ottanta, di affermarci sul piano mondiale, anche come sistema produttivo, oggi non sono più elementi di competitività. La nostra struttura produttiva, per i suoi nove decimi, è composta da microimprese, al di sotto dei dieci dipendenti, che hanno prevalentemente un mercato locale, cioè lavorano all’interno del proprio comune, provincia, regione. Sono imprese spesso a gestione familiare che, in questi anni, hanno poco capitalizzato, cioè non hanno reinvestito la loro ricchezza nell’attività, ma hanno comprato case, aperto altri negozi, eccetera; insomma si sono arricchiti, ma non hanno arricchito l’azienda, mettiamola così. Ovviamente non tutti, ma una quota considerevole.
Nell’epoca della globalizzazione, questi elementi peculiari non sono più in grado di reggere la competizione, anche perché quando diciamo che è entrato nel mercato un "Paese” come la Cina o come l’India, in realtà ci raccontiamo un falso, nel senso che un conto è che entri un "Paese” come la Slovenia, che fa quattro milioni di abitanti (come il Veneto), un altro conto è la Cina, che fa un miliardo e trecento milioni di persone, praticamente un continente, peraltro in crescita esponenziale. Va da sé che per competere con questi sistemi-paese, bisogna essere strutturati.
Allora, per non deprimersi, è utile guardare a quelle imprese e a quei settori produttivi che hanno saputo reggere la competizione internazionale, per provare a trarne delle indicazioni sulla strada da seguire.
La prima osservazione è che a farcela oggi sono soprattutto le medie imprese, cioè le imprese più strutturate, quelle fra i cinquanta e i duecentocinquanta dipendenti; quelle che gli economisti chiamano le "driver” dello sviluppo, cioè quelle che appunto guidano lo sviluppo. Analizzando le loro performance economiche viene fuori che, in questi anni, hanno creato più ricchezza, e più occupati anche rispetto alle grandi imprese. Di qui l’importanza di questa struttura imprenditoriale che è tipicamente italiana. Negli altri Paesi, in Germania, in Francia ci sono le grandi e le piccole imprese, cioè c’è una polarizzazione, da noi invece si sono affermate le imprese medie.
Cos’hanno fatto le medie imprese che ce ­l’hanno fatta?
Allora, per prima cosa si sono internazionalizzate. Internazionalizzarsi non vuol dire delocalizzarsi. Con "delocalizzazione” dobbiamo intendere l’impresa che ha la struttura produttiva in Italia e che decide di far fare le scarpe a Timisoara, per poi reimportare il semilavorato e commercializzarlo qui. Questa è un’operazione che è stata in voga tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta e che però si è rivelata una logica più di tattica che di strategia, perché risponde esclusivamente alla domanda: dove posso andare a produrre spendendo meno? Ora, per mettere in atto questi processi, ci vuole uno studio, e poi ci vogliono investimenti, cioè non è che io domattina alzo il telefono... Non solo, una volta che mi sono impiantato in un territorio e ho trovato la manodopera disponibile e capace, magari all’inizio la posso anche pagare poco, però, nel tempo, porto sviluppo e portando sviluppo, aumentano le richieste, arrivano i sindacati, il welfare comincia a costare e pertanto il costo del lavoro tende ad aumentare. Insomma, nel giro di quattro o cinque anni non mi conviene più produrre lì e quindi dovrei andare in cerca di un altro posto. È evidente che questa diventa un’operazione costosissima e che alla fine non ...[continua]

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