Vorremmo parlare con lei del tema della sessualità e della disabilità mentale.
Le racconto una storia che risale ormai a una trentina d’anni fa. Io mi sono occupato storicamente di intervento educativo e di apprendimento, di riabilitazione nel mondo della disabilità. E parallelamente, come storia professionale, sono psicologo clinico, psicoterapeuta, con un’attenzione particolare alla cura dei disturbi sessuali. Così, mentre coordinavo, per esempio, un’équipe di educatori nella costruzione di un progetto di riabilitazione, piuttosto che nella costruzione di una comunità alloggio, spesso mi sentivo dire: "Ma tu che sei esperto di sessuologia, non puoi dirci che fare...”. E io ero costantemente in imbarazzo e rispondevo: "Non so che dire perché non ho mai studiato la questione e non ho mai neanche trovato cose da studiare”. All’epoca non c’erano molti libri sull’argomento. Alla fine mi sono sentito cooptato, anche perché, vivendo la realtà quotidiana, la sensazione era che ci fosse anche tanto dolore perché questo desiderio non era visto o non veniva guardato apposta proprio per evitare di trovarsi anche in un guaio, di non saper cosa dire.
Con le persone che lavoravano attorno a me, collaboratori, psicologi, medici, ma anche educatori, a un certo punto ci siamo detti: "Proviamo a stare nelle cose, ad affrontarle. Probabilmente non risolviamo però almeno smettiamo di eludere la questione”. E allora abbiamo cominciato ad ascoltare le persone disabili (che noi in gergo chiamiamo "i ragazzi” e "le ragazze” anche se spesso sono persone adulte) e a lasciarci guidare anche da loro, e poi a metterci in collegamento con le famiglie, che spesso invece portavano la parte negativa della sessualità, quella che richiedeva interventi per essere limitata, corretta, repressa. Parliamo di famiglie spesso ricche di una tenerezza speciale, molto addolorate: "Ma povero figlio mio, perché proprio lui che ha già tanto sofferto non deve avere una ragazza...”. Ecco, in questo mare in burrasca abbiamo iniziato a vedere che forse c’erano dei punti fermi, dei punti di partenza.
Li possiamo riassumere in poche parole. Il primo è che non ha senso parlare di sessualità delle persone disabili, ma solo di sessualità delle persone umane, perché studiando la questione, non si trova una sessualità diversa, si trova un modo diverso di provare a viverla, una maggiore fatica a esprimerla, a realizzarla, però è la stessa dimensione. Quindi abbiamo cercato di forzare il discorso in questa direzione: non creiamo una sessuologia speciale, ma accompagniamo queste persone nelle fatiche speciali che a volte bisogna affrontare nella realtà dell’handicap e della disabilità. Questo approccio non è mai stato smentito dalla letteratura scientifica, perché non c’è nessuno studioso che possa affermare che la sessualità di una persona disabile è diversa dalla normale sessualità umana.
Adottando uno sguardo "normale”, quotidiano rispetto alla sessualità, ci accorgiamo subito che la sessualità va sostenuta perché da soli andiamo in crisi. Attenzione: non va sostenuta solo la sessualità delle persone disabili, ma quella di ciascuno di noi.
In qualsiasi coppia bisogna aver pazienza, capirsi, conoscersi, provare, crescere insieme, eccetera. Quindi la seconda parola è una sessualità umana "sostenibile”, che vuol dire che più che puntare sui deficit si punta sulle risorse. La parola "sostenibile” è tipica del lessico di chi opera nel mondo della disabilità: le persone che fanno più fatica vanno maggiormente sostenute. Di nuovo, non c’è niente di atipico perché anche la sessualità di un uomo di cinquant’anni va sostenuta e anche i ragazzi, pur giovani e pieni di salute, a volte pasticciano.
E poi c’è un’altra idea che c’è venuta: non basta umanizzarci e sostenerci, dobbiamo anche aprirci al futuro e quindi progettare. Ora, siccome le persone in difficoltà spesso non hanno la capacità di progettare, allora devono avere qualcuno che si fa promotore della loro vita in senso ampio, quindi anche della loro sessualità. Queste sono un po’ l ...[continua]
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