Nei tuoi recenti studi ti sei interessata alle apparenze sociali, cioè a come ci presentiamo agli altri, mettendo in discussione il rapporto tra maschera, apparenza e autenticità. Puoi raccontarci da dove sei partita?
Tutto è nato da una curiosità quasi antropologica per i fenomeni che andavo osservando fin da quando ero ragazzina. Sono milanese, e a Milano ho vissuto la mia adolescenza negli anni Ottanta, con la moda, i "paninari”, gli slogan della "Milano da bere” e "sotto il vestito niente”. Milano è il luogo per eccellenza del prestigio, una città che vive dell’immagine artificiale che crea. Credo che la mia sensibilità per certi temi sia nata nel suo contesto.
Poi c’è stata la mia formazione su autori francesi, come Pascal e Rousseau, che da sempre riflettono sulla questione delle apparenze, e la scoperta di Bourdieu, che mi ha fornito gli strumenti teorici più approfonditi per iniziare a decifrare queste dinamiche.
La tradizione di pensiero critico in cui più mi riconosco è quella cui appartengono ad esempio Ernst Bloch e Kracauer: un approccio che cerca di comprendere le dinamiche di dominio anche dal basso, rifiutando una lettura in cui tutto viene deciso dietro le quinte, in cui è la logica del potere a imporsi esclusivamente dall’alto. Senza ovviamente negare che il potere abbia un grande interesse a coltivare apparenze illusorie e il mito del prestigio, quello che cerco di sostenere è che queste dinamiche hanno anche un radicamento antropologico nel bisogno individuale di riconoscimento e nel desiderio che tutti provano di avere e proiettare un’immagine sociale. Questo bisogno è in un certo senso senza tempo, perché le apparenze sono le condizioni fisiologiche e ineliminabili di ogni socialità: ciò attraverso cui ci manifestiamo al mondo, già solo perché abbiamo un corpo che appare, e attraverso cui ci facciamo riconoscere dagli altri.
La specificità di questo approccio può essere mostrata comparandolo alle spiegazioni critiche offerte da Debord e dalla scuola di Francoforte. Nel denunciare un’overdose di estetico nel sociale, una preoccupazione ossessiva per l’apparenza, queste correnti imputano la spettacolarità o l’estetizzazione sociale solo al capitalismo e al suo bisogno di rendere attraenti con una bella immagine le merci che produce. Io trovo questa spiegazione interessante, ma parziale e insoddisfacente, in primo luogo perché non spiega perché questo fenomeno abbia tanto successo. Se il culto dell’immagine è solo un astuto strumento del capitalismo, perché ha tanta efficacia? Siamo tutti le vittime passive di un potere diabolico?
Ecco allora il mio invito a cominciare a ripensare il rapporto tra estetica e società non come un effetto unicamente alienante, ma come qualche cosa che si iscrive in un sostrato antropologico di bisogni e desideri universali. Una volta individuato questo sostrato, ci si può chiedere come l’"estetica sociale” si declini in questo momento particolare della storia occidentale.
L’apparenza, il prestigio, la "fiera delle vanità” sono stati volta e volta interpretati in modo negativo e condannati da un punto di vista cristiano, romantico, marxista. Le tue ricerche sono invece volte a rivendicare come questi elementi siano insostituibili nella comunicazione del proprio essere sociale.
Nel mio libro chiamo romantico (per semplificare, metto in questa categoria molte cose che andrebbero naturalmente precisate e distinte) l’approccio che condanna il ruolo delle apparenze sociali in nome del valore dell’autenticità: l’immagine sociale è falsa, ipocrita, alienante, è una maschera che ci allontana dagli altri, che ci impedisce di comunicare con loro in modo sincero…
Io stessa mi sono dovuta "disintossicare” da questo modo di pensare che impregna fortemente la nostra cultura, e che viene espresso in modo esemplare nel pensiero di Rousseau. La ragione del suo successo è abbastanza semplice. Nell’esperienza del soggetto, l’immagine sociale è qualcosa che ci appartiene strettamente ma che non si può controllare, in quanto dipende dall’attestazione degli altri. Il riconoscimento è sempre un problema drammatico perché non può essere estorto: non posso obbligare qualcuno a stimar ...[continua]
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