Nel 2016 la Caritas nazionale ha lanciato in tutta Italia il progetto "Rifugiato a casa mia". Il progetto prevedeva che i beneficiari venissero ospitati per 6 mesi in strutture abitative autonome, messe a disposizione dalle parrocchie o da privati, oppure presso famiglie, e che una famiglia italiana svolgesse il ruolo di punto di riferimento (tutoraggio) sia per l’inserimento sociale che affettivo nella comunità. Ogni famiglia aveva a disposizione cento euro al mese per finanziare varie attività di carattere ludico e/o formativo.
Federica Mariani è responsabile per questo progetto della Caritas di Novara, una delle province con la maggiore presenza di rifugiati in Italia. Federica è arrivata a ricoprire questo incarico dopo una serie di esperienze come insegnante di francese nei licei e attività di docente di linguistica all’università. Passata all’insegnamento dell’italiano per stranieri, ha iniziato a svolgere attività di volontariato, per approdare infine alla collaborazione a tempo pieno a questo progetto e ad altre attività rivolte ai migranti.

Come è nato il progetto a livello nazionale, com’è stato organizzato e come si è arrivati a decidere di parteciparvi a livello locale?
Il progetto è stato ideato dai responsabili nazionali insieme a sociologi e psicologi. Circa 70 delle Caritas italiane sulle 210 esistenti in Italia hanno aderito. La diffusione è stata a macchia di leopardo, ma non ci sono state differenze significative tra Nord, Centro e Sud, con alcune punte di adesione, come ad esempio in Campania, dove una diocesi ha avuto una cinquantina di accoglienze. Anche a Bologna ci sono state mol-te adesioni, come in Piemonte e Lombardia. In totale i rifugiati coinvolti nel progetto a livello nazionale sono stati più di 400.
Tutti noi operatori siamo stati formati con parametri molto rigorosi, criteri rigidi di selezione delle famiglie. Il nostro margine di manovra come operatori è stato molto ridotto. Gli operatori selezionati sono stati sot-toposti a un percorso di formazione intensivo fatto a Roma. Siamo stati seguiti costantemente, ed avevamo un tutor per ogni area geografica (Nord, Centro, Sud), al quale ci siamo rivolti in situazioni di difficoltà, per cui la linea di condotta degli operatori è stata molto omogenea.
A livello locale la decisione di partecipare è stata presa dal direttore della Caritas di Novara dopo aver consultato l’equipe con cui collabora, sentendo anche il vescovo, che è presidente della Caritas diocesana. Con la situazione di Novara, con tante case di accoglienza e tanti immigrati, tutti eravamo convinti che si dovesse fare qualcosa, quindi la decisione è stata unanime.
La Caritas novarese è molto estesa, perché comprende aree in più province, come il Verbano e la val Sesia. Ci sono state dieci adesioni da parte di parroci di Novara e tre in Comuni limitrofi (Bellinzago e Varallo Pombia, a 15 e 25 km da Novara). Sembrano numeri bassi, ma data la mentalità locale è una partecipazione significativa, almeno come prima esperienza. A Novara c’è una rete di parroci, per cui è stato più facile trovare alloggi e collaborare. Le parrocchie che hanno aderito sono state sei, di cui quattro a Novara, e ognuna ha accolto due ragazzi, ospitati insieme nello stesso appartamento. Non tutti i parroci sono stati disposti ad aderire, non tanto a causa della diffidenza dei fedeli quanto della disponibilità del sacerdote. In qualche caso si è trattato di una carenza di "leadership” del parroco nei confronti dei fedeli. Ci sono anche situazioni in cui, pur in un contesto difficile, se non ostile, il sacerdote ha deciso di collaborare lo stesso, e poi le comunità hanno accolto positivamente il rifugiato. Altri invece hanno detto nettamente di no, e non sempre per la mancanza di una struttura in cui accogliere il beneficiario.
Nessuno dei ragazzi è stato ospitato in famiglia, tutti in alloggi di parrocchie o istituti religiosi, tranne un appartamento di proprietà di un privato. Ho ritenuto che fosse meglio evitare la convivenza in famiglia, in quanto mi è parso più importante non creare legami di dipendenza e puntare piuttosto sull’autonomia dei ragazzi. 
In base a quali criteri sono stati selezionati i beneficiari?
Io mi sono incaricata della selezione, che non è stata facile perché quasi tutti i ragazzi usciti dai centri di accoglienza e dai CAS (Centri di Accoglienza Straordinari) si trovano a non sapere cosa fare. A Roma si è insistito perché venissero coinv ...[continua]

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