Marina Forti è una giornalista. Nel 1999 ha vinto il Premiolino, fra i più importanti premi giornalistici italiani. Per quasi trent’anni ha lavorato nella redazione de “il manifesto” e collabora oggi con “Internazionale” e altre testate. Fra i suoi libri, La signora di Narmada (Feltrinelli 2004), Il cuore di tenebra dell’India (Bruno Mondadori, 2012) e Malaterra. Come hanno avvelenato l’Italia (Laterza, 2018).

Come sei arrivata a interessarti del progetto Eni al largo delle coste romagnole, e perché è così importante, secondo te?
Quando ho sentito parlare dei progetti dell’Eni di cattura e stoccaggio di anidride carbonica, il Ccs, ho capito che il progetto di Ravenna era di importanza strategica non solo per l’Italia, ma per tutto il Mediterraneo e l’Europa meridionale. Mi sono resa conto che su questo progetto non solo si giocava una partita immediata, quella della spesa dei soldi del recovery fund, e già questo è importante (non ricapiterà più di ricevere così tanti fondi europei); ma che è in gioco soprattutto il modello di produzione e consumo d’energia dei prossimi decenni. È diventato trendy parlare di transizione energetica, un concetto su cui il mondo ambientalista premeva da decenni. Ora è diventata un’espressione mainstream. Ma che vuol dire transizione? Questo è il punto. Ciò che sta accadendo a Ravenna non è soltanto un affare locale, ma riguarda tutta Europa, proprio perché i progetti di transizione energetica rientrano in un quadro di investimenti europei.
Che cosa sono i Ccs?
Si potrebbe rispondere che stiamo parlando d’aria calda, ma proviamo a essere più precisi. La sigla “Ccs” viene dall’inglese Carbon Capture and Storage, che significa “cattura e stoccaggio di carbonio”. L’idea è quella di captare i fumi emessi dagli impianti industriali, dalle centrali termiche; separarne l’anidride carbonica, che è un gas serra e come sappiamo uno dei più nocivi; convogliarla in un impianto di raccolta, dove viene liquefatta; e infine iniettarla da qualche parte. Nel caso di Ravenna, nei giacimenti di idrocarburi, ormai esausti o quasi, situati davanti alla costa romagnola. A dirla così sembrerebbe una soluzione fantastica: catturi l’anidride carbonica invece di liberarla nell’atmosfera, dove contribuisce all’effetto serra, e la inietti sotto terra, in giacimenti che avevano contenuto gas e che quindi, in teoria, non presenterebbero nessun problema. Ma le cose non stanno esattamente così.
Di obiezioni tecniche, economiche e ambientali ce ne sarebbero molte; citerò quella di uno dei più illustri chimici italiani, Vincenzo Balzani, professore emerito all’Università di Bologna e membro dell’Accademia dei Lincei. “È illogico continuare a usare combustibili fossili emettendo anidride carbonica per poi spendere soldi ed energia per riprenderla, quando abbiamo ormai le tecnologie per non produrla affatto”, dice Balzani. La cattura e stoccaggio è una tecnologia costosa e che consuma molta energia: perché dovremmo spendere tanti soldi e sprecare tanta energia per captare l’anidride carbonica ottenuta usando combustibili fossili, quando possiamo usare fonti rinnovabili per produrre energia senza più emettere CO2, e a costi concorrenziali? Negli anni Ottanta, quando gli ambientalisti parlavano di energie rinnovabili si facevano ancora discorsi avveniristici: le tecnologie basate su energie pulite erano ancora immature e costose. Oggi non è più così: è concorrenziale produrre elettricità con l’eolico e con il solare. La cattura e lo stoccaggio invece usa tantissima energia. L’Eni, sul suo sito web, offre molte spiegazioni, molto ben fatte, da cui sembra che davvero questo progetto sia una soluzione perfetta; ma non si parla molto di costi, né dell’energia consumata, ovvero delle emissioni che si creano per catturarne altre. L’Eni parla di una tecnologia matura, perché viene comunemente usata in tutte le installazioni petrolifere o di gas naturale al mondo; e questo è vero: ma viene usata per captare le emissioni di gas prodotte in loco, sul pozzo. E poiché è un’operazione costosa, viene fatta in Europa e in altri paesi ricchi, mentre in Nigeria ad esempio molti dei pozzi di estrazione lasciano andare le loro emissioni, con soffioni di gas che si incendiano. Diverso è pensare di catturare l’anidride carbonica su larga scala. L’Eni dice di poter captare tutto il gas prodotto dagli impianti industriali nella Pianura Padana e convogliarli sotto la costa romagnola: non so se sarebbe tecnicamente fattibi ...[continua]

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