Michele Salvati è professore emerito di Economia politica all’Università Statale di Milano. Collabora al “Corriere della Sera”, al “Foglio” ed è stato direttore della rivista “il Mulino” (2012-2017). È autore di numerosi libri in vari campi di ricerca economica e politologica. Tra i più recenti: una raccolta di saggi su Capitalismo, mercato e democrazia (il Mulino, 2009) e Progetto 89. Tre saggi su libertà, eguaglianza, fraternità (con A. Martinelli e S. Veca; il Saggiatore, 2009). Il volume di cui si parla nell’intervista è Liberalismo inclusivo, Feltrinelli, 2021, scritto assieme a Norberto Dilmore.

La grande crisi finanziaria e ora la pandemia hanno reso evidente la crisi del modello neoliberista. Si presenterebbe quindi oggi una congiuntura favorevole alla proposta di un nuovo paradigma, quello del liberalismo inclusivo. Di cosa si tratta?
Si tratta in sostanza del riformismo della tradizione socialista, del socialismo liberale di Carlo Rosselli. Ma perché abbiamo sentito il bisogno di ri-denominare in termini di liberalismo un’espressione consacrata da una lunga tradizione? Insomma, di scambiare l’aggettivo con il sostantivo? A noi è sembrato opportuno per due motivi.
Il primo è quello che le due espressioni, a seguito di mutamenti storici che ricapitoliamo nel libro, sono arrivate ad avere lo stesso significato. Questo mutamento è avvenuto prima in campo socialista. La corrente riformista si è affermata a partire da Bernstein, quindi grosso modo dall’inizio del Novecento. Il famoso libro di Bernstein viene pubblicato proprio alla fine dell’Ottocento ed è il tentativo -in opposizione alla visione rivoluzionaria del socialismo- di tenere uniti gli aspetti più accettabili sia del liberalismo che del socialismo. Il risultato di questa sintesi -dopo le tragedie delle due grandi guerre, del fascismo, del nazismo e del comunismo- è sfociato nell’esperienza socialdemocratica successiva alla Seconda guerra mondiale. In campo liberale è avvenuto un processo politico simile, che però si mette in moto più tardi, dopo la grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso, e si manifesta con la profonda revisione delle concezioni di laissez faire, allora prevalenti nel liberalismo, a opera di grandi studiosi e politici liberali. Esso sbocca nella convinzione che il mercato capitalistico, senza un intervento attivo e lungimirante della politica e dello stato, non è in grado di “tenere insieme” la società: questa è il messaggio di Karl Polanyi, insieme a Keynes, suo contemporaneo, uno dei due grandi progenitori delle tesi sviluppate nel nostro libro.
All’epoca, poco prima della Seconda guerra mondiale, una parte significativa dell’élite liberale americana e inglese aveva ben in mente i disastri economici e politici provocati dal laissez faire. Aveva dunque capito che l’obiettivo fondamentale era assicurare il benessere delle grandi masse della popolazione, cosa possibile anche restando nel contesto di un’economia di mercato e di uno stato liberale: questo il grande contributo teorico di Keynes. E dopo la Seconda guerra mondiale quel ceto politico fu per trent’anni alla guida degli Stati Uniti, la potenza mondiale destinata a dominare quello che nel libro chiamiamo il “nostro angolo di mondo”, l’insieme dei paesi a economia avanzata retti da regimi liberali. Si trattò di una coincidenza straordinaria, di una fortunata congiunzione astrale, ma che mostrò al mondo intero che tenere insieme i diritti individuali e le regole costituzionali di uno stato di diritto -della rule of law- con il benessere e la possibilità di soddisfare i progetti di vita di una gran massa di persone era possibile all’interno di un’economia di mercato, di un’economia capitalistica opportunamente regolata. Cosa assai dubbia prima di allora e considerata impossibile dai comunisti, molto forti nell’immediato dopoguerra anche in alcuni paesi soggetti all’egemonia americana. Dunque, una grande corrente del liberalismo, quella dell’embedded liberalism (liberalismo inclusivo) e una grande corrente del socialismo, quella riformista, arrivarono alle stesse conclusioni, e questo primo motivo renderebbe indifferente denominare il nostro obiettivo politico come socialismo liberale o liberalismo inclusivo. Perché invece preferiamo la seconda denominazione alla prima?
Il secondo dei due motivi spiega la nostra preferenza. Il socialismo acquista un ruolo proprio all’interno della grande visione liberale della modernità, quando risulta di p ...[continua]

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