Il tuo libro Sotto padrone è frutto di una ricerca sociologica condotta sul campo per più di dieci anni. Tutto è iniziato nel 2008, da un incontro casuale con un bracciante sikh nell’Agro Pontino. Ci sono ragioni sociologiche o storiche della presenza di una larga comunità sikh in quelle zone?
Sicuramente ci sono, ma la mia ricerca non parte da un interesse puramente sociologico. Inizio a interessarmi della comunità sikh perché era visibile. Io vengo da quel territorio e la vedevo già da diversi anni. La comunità indiana in Agro Pontino nasce grossomodo attorno alla metà degli anni Ottanta. Io, essendo del ’75, sono cresciuto con questa presenza, che osservavo in maniera sporadica e individuavo attraverso le sue caratteristiche culturali. Un sikh è immediatamente visibile: la barba lunga, il kirpan, ovvero il loro pugnale, il turbante. Un francese, fino a quando non parla, non lo riconosci. Non erano presenze assidue, perché già allora vivevano in condizioni di emarginazione, di cui all’epoca non avevo coscienza. Li vedevo nel mio territorio, per le strade. Avevo già sviluppato in passato qualche progetto di dialogo culturale, come semplice volontario, ma ci sono state almeno tre variabili che sono intervenute in questo avvicinamento.
La prima è la curiosità. Come dice Cipolla, il sociologo è per sua natura un soggetto curioso. Se scende sul campo per analizzare il fenomeno è per la sua curiosità: non aspetta il paziente in ufficio, ma deve necessariamente andare nei luoghi. La seconda è il caso. Parlo appunto di quell’incidente del 2008, davvero emblematico, accaduto sotto casa mia in modo assolutamente banale: una persona che scivola dalla bicicletta per la stanchezza. Era un ragazzo giovane, con tutte le caratteristiche del sikhismo, la mano pesante del bracciante. E poi c’è l’ultima, la variabile della tesi di dottorato. Se non avessi vinto il concorso alla Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, e se non mi fosse stato chiesto di presentare un progetto di ricerca sociologica, non avrei mai fatto la somma di questi temi.
Un inizio che sembra romanzesco, ma che ti dà il destro per inserirti, fisicamente, all’interno del bracciantato indiano e iniziare una vera e propria discesa all’inferno.
In realtà la cosa interessante è proprio la banalità di quell’incontro. Io stavo semplicemente tornando a casa, vedo un ragazzo che scivola dalla bicicletta, lo aiuto, ci stringiamo la mano. Lui parla pochissimo. Può accadere ad ogni singolo cittadino, nel proprio quotidiano. Non si tratta di cercare il fenomeno eccezionale, di andare a cogliere un caso fortuito e singolare... Conta che a quell’epoca la comunità sikh aveva vent’anni di storia in provincia di Latina e contava circa 25 mila persone. Quella mia esperienza era stata sicuramente già vissuta da centinaia di altri individui.
Una volta infiltrato nel mondo del caporalato, quali sono state le prime caratteristiche, le prime immagini che ti hanno colpito?
Agromafia, caporalato, sfruttamento: sono tutti concetti complessi che sono arrivati dopo. Ciò che ho iniziato subito a percepire erano le grandi contraddizioni immediatamente evidenti. Avevo accanto a me un bracciante indiano residente a Latina da vent’anni che non sapeva una parola di italiano. Già questo era in un qualche modo distopico. Se mi trasferisco in Cina, dopo vent’anni magari non parlo perfettamente il cinese, ma qualche parola la so dire. A meno che non sia io stesso a non volere impararlo o a vivere in una condizione di emarginazione. O ancora, la contraddizione di vederli sempre girare in bicicletta. Se lavori da vent’anni in regola, non dico che giri con la Ferrari, ma giri come minimo con un’utilitaria, perché il contratto te lo permette. Evi ...[continua]
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