Cesare Moreno, già maestro elementare, è stato tra i coordinatori del progetto Chance, per il recupero dei drop-out della scuola media. Oggi è il presidente dei "Maestri di strada” (maestridistrada.it), Onlus di Napoli.
Vorremmo riprendere la discussione su scuola e uguaglianza, in particolare sulla questione se la scuola di massa, volendo star dietro agli ultimi, sia destinata ad abbassare il livello, a proporre una scuola “facile”.
È un’affermazione falsa. So che ci sono molti insegnanti che la pensano così, ma sbagliano su tutta la linea. Io ho sempre lavorato per dare il meglio agli ultimi. Se vuoi avere a che fare con i ragazzi difficili, poveri, devi offrire loro alta poesia, alta letteratura e tutti i prodotti di miglior qualità. Solo gli insegnanti incapaci difendono la linea del “Facciamo le cose più facili”.
In realtà, più “faciliti”, per così dire, più aggravi la situazione perché il ragazzino non è fesso e capisce di essere trattato da deficiente e quando io vengo trattato da deficiente poi divento effettivamente deficiente.
Al contrario di quanto sostiene Mastrocola, io dico che non c’è nessuna persona sana di mente che pensi che per allargare la platea bisogna facilitare le cose. Non c’è nessuno che lo dica; forse lo fanno, ma nessuno lo sostiene. Io poi vorrei capire meglio. Cioè, se il suo obiettivo è discutere di come si fa a mettere gli insegnanti in grado di non abbassare il livello, benissimo. La sua però mi sembra piuttosto un’invettiva contro la scuola di massa. Attenzione, non un’invettiva contro gli insegnanti incapaci e contro un sistema educativo che non è in grado di accogliere tutti, no, contro la scuola di massa, punto. Ecco, questo mi trova in totale disaccordo.
Io poi penso che prima di parlare di ragazzini emarginati, si dovrebbe entrare in contatto con loro. Ai miei ragazzini di quarta elementare, non quarta superiore, io ho letto Leopardi, Dante; e quando ho proposto queste cose ho riscosso un’attenzione straordinaria. Se viceversa gli leggi i versi di Zietta Liù, l’autrice che andava per la maggiore nei libri della scuola elementare degli anni Cinquanta-Sessanta, i ragazzi si annoiano. È molto semplice. Se invece li porti al museo, se li porti nei posti belli, se li metti a contatto con l’arte, ti posso dimostrare che sono dei critici più attenti dei figli di papà. Quindi il problema è il metodo ed è anche diciamo una certa cultura pedagogica diffusa.
Mastrocola se la prende con quelli che fanno queste operazioni di facilitazione, ma la sua proposta qual è? Fare una selezione e poi offrire agli altri dei percorsi speciali così che non inficino la qualità dell’istruzione? Insomma, lo scopo ultimo di questi ragionamenti qual è? Migliorare le capacità professionali degli insegnanti o fare selezione? Perché se l’obiettivo è migliorare la qualità professionale, migliorare la qualità della scuola, allora siamo d’accordo. Se invece l’esito del ragionamento è: quelli che hanno voglia di fare, ce li gestiamo noi; quelli che non hanno voglia faranno una scuola diversa (non possiamo dire di serie B, ma il senso è quello). Se lo scopo è questo, non siamo accordo.
Le recenti polemiche sull’alternanza scuola-lavoro hanno riportato in primo piano una delle domande di fondo e cioè a cosa serve la scuola.
Lo voglio dire forte e chiaro. L’alternanza scuola-lavoro è l’unica riforma significativa e importante che c’è stata dalla riforma Gentile in poi; una riforma di cui la scuola italiana aveva un bisogno vitale perché è una scuola parolaia, elitaria, una scuola che va per farfalle e non ti fa mai confrontare con la realtà, e quindi per me è una riforma fondamentale. Tra l’altro l’alternanza scuola-lavoro negli istituti professionali c’è da vent’anni. Gli oppositori di questa cosa non se n’erano accorti che c’era già? Il problema è che abbiamo toccato i licei classici. Primo punto. Secondo punto: di quale lavoro stiamo parlando? Una delle cose a cui dovrebbe servire l’alternanza scuola-lavoro è proprio la questione della sicurezza. Anzi, io devo prima imparare a tutelare la mia sicurezza e poi andare nel posto di lavoro. I ragazzi che sono morti erano stati sufficientemente preparati su questo problema? All’entrata in azienda erano stati messi in contatto -per prima cosa- con il responsabile sicurezza? Questo ragazzo stava sotto un carico sospeso, una cosa che è contro tutte le normative di sicurezza… Ma poi erano sufficientemente consapevoli del fatto che quando lavori in un ambiente pericoloso tu sei corresponsabile della tutela della tua incolumità? Perché la normativa dice che i lavoratori sono corresponsabili.
Purtroppo stiamo ragionando di una cosa fatta male e gestita peggio.
Va anche detto che se si fosse trattato di un apprendista o di un giovane operaio sarebbe stato l’ennesimo morto sul lavoro. Allora bisogna combattere l’alternanza scuola-lavoro o bisogna combattere il lavoro senza sicurezza? La seconda evidentemente.
Francamente trovo l’opposizione all’alternanza in relazione a queste morti, oscena; è come dire: noi studenti non c’entriamo con questa roba. Invece no, noi studenti c’entriamo eccome.
I percorsi di sicurezza cominciano a tre anni; a quell’età devi spiegare al bambino che cosa è pericoloso e cosa no. Certo non gli spiegherai che in fabbrica non si sta sotto i carichi sospesi, però delle cose sull’elettricità, sui detersivi, sui prodotti tossici o velenosi, sui pavimenti scivolosi, eccetera, gliele dici o no? Oppure si fa come è stato fatto in questa scuola dove sono stati imbottiti tutti gli spigoli dei tavoli di modo che il ragazzino urta ma non si fa male. Ma così cosa gli sto insegnando? Che se vede uno spigolo può andarci con la testa contro? È chiaro che se non metto una protezione allo spigolo, ci sarà qualche bambino che sanguinerà, però, signori, la vita è fatta così. Cioè non è che possiamo mettere i ragazzi in un ambiente totalmente ovattato e poi pretendere che questi imparino le norme di sicurezza.
Se un ambiente pieno di spigoli non è adatto a un bambino di tre anni, semplicemente lo faccio stare altrove. Però poi a quattro o cinque anni incontrerà un ambiente con gli spigoli. Prima o poi questi spigoli uno li deve affrontare o no? Possiamo decidere non a tre anni, non a quattro, ma a sei anni gli spigoli li incontrerai.
Il nostro compito di educatori non è di evitare, ma di insegnare ad affrontare i pericoli.
Poi bisogna capire di quali lavori parliamo. Noi Maestri di Strada quando facciamo alternanza scuola-lavoro con il liceo classico e con il liceo pedagogico, mica li portiamo in fabbrica, li portiamo tra i bambini. Però se uno viene nella scuola dell’infanzia e si prende il covid da un bambino, fa parte del gioco. Cioè, se ci vanno gli insegnanti, ci vai pure tu; naturalmente stando attenti e seguendo le norme. Però non è che posso eliminare tutti i pericoli.
Il fatto è che ci sono delle correnti politico-culturali che sono contrarie all’alternanza scuola-lavoro con argomentazioni davvero incredibili: lo sfruttamento del lavoro minorile da parte dello sporco capitalista. Ma loro sanno che cos’è lo sfruttamento? Lo hanno mai visto? Lo sanno che se io faccio venire una ragazza per l’alternanza scuola-lavoro, ci perdo in termini di tempo e di energie? Lo faccio perché secondo me è importante diffondere un metodo educativo eccetera eccetera, ma se dovessi farmi i conti in tasca non mi conviene. Quindi dove sta questo sfruttamento?
Sembra riemergere anche un problema che abbiamo affrontato già anni fa e cioè un’inspiegabile forma di disprezzo della sinistra per il lavoro manuale…
È così. II nostro problema, sia politico sia educativo, non è quello di dire no al lavoro manuale, ma di fare in modo che il lavoro manuale si veda riconosciuta l’importanza che a esso spetta nello sviluppo di una persona. Una persona che non abbia mai fatto un lavoro manuale è una persona con un handicap, uno svantaggio, perché non si sa districare davanti a un certo tipo di problemi. Poi uno si crea gli hobby: la nave nella bottiglia è il lavoro manuale dell’intellettuale che così può dire: anche io faccio un lavoro manuale. Bravo, complimenti!
Comunque i lavori intellettuali più difficili e impegnativi, per esempio quello del chirurgo, comportano una manualità, sono basati sul lavorare con le mani; mani guidate dal cervello. Ma perché, il meccanico non ha le mani guidate dal cervello? Ma voi avete presente di quante parti è fatto un motore quando viene smontato? Se non usi il cervello, non lo rimonti più! Quindi di che cosa stiamo parlando? È un’immagine del lavoro manuale ottocentesca, di sfruttamento proprio bieco. Io non nego che ci sia, cioè se uno va a fare l’alternanza scuola-lavoro al McDonald’s, ha poco da imparare. Però io dico che tre giorni al McDonald’s fanno bene alla salute perché ti rendi conto di quali problematiche affrontano quelli che ci vanno tutti i giorni, per mesi, per anni.
L’importante è che l’alternanza scuola-lavoro sia innanzitutto una forma di conoscenza, di apprendimento. Se invece viene considerata e gestita come un lavoro, allora non ci siamo. Cioè se voglio vedere come funziona il McDonald’s, dopo una settimana so tutto, non c’è bisogno che ci vada per un mese. Purtroppo in questa ambiguità che riguarda la pratica, ma anche la normativa, c’è chi c’zzuppà ‘o ppane, come diciamo noi, cioè approfitta per rilanciare realmente forme di sfruttamento di corta veduta da un lato e slogan stantii dall’altro.
Comunque vorrei chiedere ai nemici dell’alternanza scuola-lavoro: se io mando dei ragazzi del liceo agli scavi di Ercolano ad affiancarsi alle guide, come lo chiamiamo, sfruttamento del lavoro minorile o apprendimento vero? D’altra parte come faccio a capire come funziona l’archeologia o una visita guidata, se rimango seduto al banco?
Non so se si faccia ancora, ma a Napoli in passato c’era il Maggio dei Monumenti: i licei classici, scientifici, ecc. adottavano un monumento e gli studenti facevano da guida ai turisti e ai napoletani che in quei giorni volevano visitare luoghi altrimenti inaccessibili. Ecco, siccome non c’era l’alternanza scuola-lavoro, erano tutti entusiasti di questo progetto. Naturalmente c’erano degli insegnanti che pensavano che il ragazzino o la ragazzina che si impegnava nel Maggio dei Monumenti stesse perdendo tempo.
La mia impressione è che esista una casta, le vestali della classe media, che è nemica di qualsiasi forma di impegno, perché questo oltretutto è anche un impegno. È contraria all’impegno politico, all’impegno culturale autonomo dalla scuola, è contraria all’alternanza scuola-lavoro. È contraria in generale agli apprendimenti che non si fanno chiusi nelle quattro mura della classe. Per questi insegnanti le visite guidate sono solo delle “gite”, cioè delle distrazioni dai compiti veri della scuola, tant’è che non c’è nessuno che voglia accompagnare i ragazzi.
Ma scusate, le visite guidate, le cene di fine anno che da qualche parte vengono organizzate, fanno parte del processo educativo o sono corpi estranei? Io il mio primo litigio l’ho avuto con una insegnante che pure amavo, perché mi ha fatto piacere il greco in un modo che ancora oggi mi rimane. Ecco, siccome io di pomeriggio facevo attività sportiva, lei mi aveva ripreso: “Moreno, perdi il tempo…”, al che io le ho risposto: “Scusi ma non è stata lei a insegnarmi Kalos kagathos, che è l’originale greco per mens sana in corpore sano: mente che funziona in un corpo che funziona. Me l’avete insegnato voi…”.
Aggiungo: la scuola si occupa del corpo dei ragazzi? La riposta è no, come è stato ben dimostrato durante la pandemia. Le due ore di sedicente educazione fisica che ormai si fa seduti nei banchi sono ridicole; si dovrebbe fare un quarto d’ora tutte le mattine. Ma figuriamoci, se dici una cosa del genere: “Ma sei fascista!?!”, “Ma sei maoista!?!”.
Lo chiedo seriamente: se introducessimo un quarto d’ora di ginnastica tutte le mattine sarebbe una cosa sana o sarebbe un cedimento alle mode? Queste persone si sono accorte dell’aumento delle malattie psichiche durante la pandemia? Per carità, la funzione della scuola non è quella di essere la “casa” dei ragazzi, però siamo consapevoli che oggi, se i ragazzi non vengono a scuola, non hanno altre occasioni di socializzazione? Sanno quanti sono i figli unici o quasi unici a confronto di cinquant’anni fa? La società è cambiata e a causa di questo cambiamento il ruolo della scuola senza stravolgerlo va portato all’altezza dei problemi nuovi. Cinquant’anni fa io avevo cinque fratelli, per socializzare non avevo bisogno dei compagni di scuola, c’avevamo già una banda a casa; non c’era bisogno di fare i gruppi di bulli dentro la scuola. Oggi non è più così: se i ragazzini non vanno a scuola, non sanno da che parte girarsi. Gli appartamenti perché si chiamano così? Perché servono per appartarsi. Ma se io sto tutti i giorni appartato in un appartamento, quand’è che vivo in relazione con gli altri? Insomma, insisto, la mia impressione è che qui molti non sappiano di cosa parlano. La Mastrocola è rimasta ferma all’idea che ci vuole una scuola selettiva; che le persone per impegnarsi devono passare per uno studio che sia sofferenza.
Che lo studio sia fatica è indubbio, però noi sappiamo che i ragazzi si impegnano in fatiche, anche notevoli, se c’è una motivazione. Il ragazzino che studia chitarra da autodidatta si sottopone a esercizi abbastanza noiosi per ore e ore. Allora quella è fatica, ma non è sofferenza perché è una fatica con un senso. La fatica senza senso si chiama sofferenza e la sofferenza non va bene. Dalla sofferenza non si apprende; si apprende dalla fatica; si apprende anche dal dolore se rielaborato. Ma non dalla sofferenza per la sofferenza.
Quando citano Gramsci e lo studio come sofferenza, dicono una sciocchezza, perché certamente Gramsci non poteva intendere questo e se lo intendeva, questo lo avvicina a una certa forma di autoritarismo che abbiamo visto sotto Stalin, che vede nel lavoro-sofferenza un credito su cui costruire scalate sociali,
Il genero di Karl Marx, Paul Lafargue, scrisse “L’elogio dell’ozio” in polemica con tutta la logica marxista e poi leninista che esaltava il lavoro come attività liberatoria. Questo per dire che fin dall’origine, nel marxismo-leninismo e in generale nella sinistra, c’è stata una contrapposizione tra chi pensava che l’ideale, tra virgolette, fosse l’ozio nel senso antico dell’otium dei romani e il lavoro come sofferenza pura. Se io non ho un lavoro, non mangio. Se io non lavoro non sono. Ma è davvero così? Cioè io esisto solo se lavoro? Questo può essere anche vero, ma riguarda il lavoro come partecipazione allo sviluppo sociale. Il lavoro com’è organizzato nella società capitalistica -io ti do i soldi e tu mi dai il tuo tempo-lavoro- non può essere ciò che ti riempie la vita. Anche quello che faccio io è un lavoro. Ma il mio lavoro trasforma le relazioni, ed è partecipazione alla società. Beh, ma questo è un lavoro bello! Infatti il diritto al lavoro non è il diritto al salario. Il diritto al lavoro dovrebbe essere il diritto a partecipare.
Quello che preoccupa del diciottenne che non riesce a trovare un lavoro è il fatto che lui gira a vuoto. Questa è la condizione di chi non lavora, che viene messo fuori, che non si può rendere utile e se io non mi rendo utile agli altri non esisto. Se però io faccio un lavoro salariato, questo certo soddisfa il mio bisogno di reddito perché se non lavoro non mangio, ma dal punto di vista del mio contributo alla società non è necessariamente un fatto significativo.
Di qui la necessità di pensare anche all’economia civile: un’economia fondata sullo scambio civile piuttosto che sullo scambio monetario. Ecco, sarebbe bello, quando si discute di queste cose, che le persone che si vogliono occupare di educazione, ma anche di politica, mettano in chiaro come si collocano perché se no rimaniamo schiavi di un dibattito impostato su delle coordinate stereotipe. Se invece vogliamo discutere seriamente di qual è il ruolo dell’istruzione, della formazione, dell’educazione, del lavoro nella nostra società, allora facciamo una critica profonda anche ai concetti più scontati.
C’eravamo lasciati a fine estate del 2020 con l’avvio della tua e vostra impresa titanica alla scuola di Ponticelli. Cos’è successo in questi due anni di pandemia?
In questi due anni è successo che abbiamo ingaggiato un duello all’ultimo sangue con le burocrazie, le insipienze, le inadempienze di autorità e politici, però io non ho ancora versato l’ultimo sangue quindi sto ancora combattendo.
Per quanto riguarda l’edificio, abbiamo rappezzato la situazione, ma considera che qui c’erano, non le infiltrazioni d’acqua, ma le cascate. Insomma, abbiamo rattoppato i pavimenti, le porte, i bagni tutti fuori uso ecc. Sostanzialmente abbiamo rimesso in uso lo stabile e lo abbiamo utilizzato come una sorta di cantiere-scuola; grazie al fatto che abbiamo molti spazi aperti e che qua il tempo è buono, noi siamo stati sempre in attività da quando è cominciata la pandemia. Addirittura devo dire che in questi mesi i nostri rapporti con i ragazzi, con le famiglie e con le scuole sono migliorati. Ma perché noi abbiamo subito affrontato il problema. Non abbiamo detto aspettiamo che passi. Agli operatori ho detto subito: “Levatevi dalla testa che duri poco. Se l’unico precedente storico che abbiamo è quello della Spagnola del 1918-1920 andremo avanti per anni. E infatti...
L’approccio dell’autorità pubblica è stato: “State fermi che stiamo provvedendo”, invece noi fermi non siamo mai stati perché abbiamo subito cercato delle strategie di sopravvivenza dentro questa situazione. E quindi ci siamo inventati questo progetto: i Coronauti. Se ricordate dai vostri studi, gli Argonauti si chiamavano così perché viaggiavano a bordo della nave Argo alla ricerca del famoso Vello d’oro, anche loro per sfuggire a una epidemia. Quel viaggio non fu nient’affatto semplice, però durante quest’avventura impararono tante cose. Quindi la storia degli Argonauti simboleggia un viaggio verso una soluzione miracolosa dove però scopri che è più prezioso quello che impari lungo la strada... Se vuoi, è come se gli Argonauti fossero stati i primi maestri di strada, nel senso che apprendevano strada facendo. Noi ci siamo inventati i Coronauti, come a dire che il Coronavirus è la nostra nave. Il virus non è il nostro nemico ma il nostro coinquilino: antipatico, scomodo, pericoloso eccetera, però coinquilino, nel senso che stiamo assieme, non c’è niente da fare.
Questo, anche proprio filosoficamente, è fondamentale da capire. Tutto il linguaggio bellico usato dalle autorità, dai politici, dagli educatori, oltre che antipatico per vari motivi, è sballato, perché crea una separazione tra te e il virus che non solo non esiste ma è dannoso in quanto ti getta nel panico, alimenta le paranoie: “Mo, chissà questo nemico come si sta organizzando… ora s’è inventato perfino una variante in modo da aggirare le vaccinazioni..”.
Tra l’altro siamo attorniati da coinquilini. L’uomo non è un’entità separata dal resto; è un coacervo di entità viventi: siamo pieni di batteri; siamo pieni di ospiti assortiti… poi qualcuno tiene pure i pidocchi! A parte le battute, siamo pieni di ospiti, di commensali o addirittura di cooperanti. C’è tutta una cultura per cui c’è l’uomo e c’è la natura. Invece l’uomo è parte della natura. Purtroppo è una parte che spesso si rivolge contro di essa e, spesso, anche contro se stesso. Comunque i virus fanno parte di noi.
Apro una parentesi. Per me il governo ha fatto bene a fare il lockdown, però la gestione informativa è stata pessima, totalmente ideologica e terroristica. Ancora oggi la comunicazione non è basata sulla consapevolezza, ma sulla minaccia e sul terrore. Lo stesso modo di affrontare i no vax, con cui io non sono neanche lontanamente d’accordo, è stato poco razionale. Il termine giusto è “terroristico”: cioè vi dovete mettere paura. La mia linea è invece che solo se aumentiamo il livello di consapevolezza ci possiamo difendere. E dall’altra parte c’è un concetto di libertà che non mi convince.
La libertà non è faccio quello che mi pare finché non intacco la libertà dell’altro. Non è così. L’altro sta sempre con noi: queste persone hanno una concezione dell’individuo come sciolto dalla società; per loro la società non è un’espansione dell’io, è una limitazione dell’io. Ma è vero esattamente il contrario. Una persona è se stessa nella misura in cui ha sviluppato relazioni ed è interdipendente dagli altri. Se tu sei completamente sciolto dagli altri, non sei nessuno; sei uno che si è posto fuori della società: “Ci sono io e basta”. Che poi non è neanche così. Non ci sei tu e basta. Non sei totalmente indipendente, sei interdipendente. Il problema è che tu, dentro la relazione, vuoi fare quello che vuoi.
Ad ogni modo io ho fatto la vaccinazione antivaiolosa, che aveva una reazione fisica abbastanza forte. Così come ho vissuto l’ondata di terrore per la poliomielite: ho visto compagni di scuola paralizzati. Durante il colera del 73 ho visto il terrore che serpeggiava. Tra l’altro all’epoca avevo fatto una manifestazione per contestare il fatto che avevano proibito le manifestazioni, ma si dà il caso che il colera si prendeva per vie alimentari, quindi non c’era assolutamente alcun pericolo, ma il Covid si trasmette per via aerea…. quella volta la battaglia la facemmo per dire: “Voi dovete vaccinare la gente”, non potete fottervene così.
Dicevi che non siete mai stati fermi...
Allora, essendo noi una struttura di pronto soccorso, sia pure pedagogico, ci siamo subito detti che dovevamo restare sul campo e quindi ci siamo procurati i permessi, abbiamo fatto varie cose, ci siamo inventati questi pacchi viveri; siamo andati in giro per il quartiere a consegnare libri, quaderni, tablet eccetera e soprattutto abbiamo sfruttato Internet, non per fare lezione, ma per interagire.
I ragazzini durante la pandemia hanno creato ottanta video; abbiamo allestito il portafoglio digitale… e poi abbiamo fatto tutta una serie di operazioni che sono servite a tenere i contatti del primo, del secondo e del terzo tipo. Quelli del film erano gli “incontri ravvicinati del terzo tipo”; bene, noi abbiamo fatto i contatti distanziati del primo tipo, il telefono; di secondo tipo, Internet, Zoom, ecc.; e infine gli incontri distanziati del terzo tipo: andare nei luoghi, salutare i ragazzi a due metri di distanza, consegnare i “pacchi viveri per la mente” e poi fare quattro chiacchiere per strada.
Tutto questo ha fatto sì che i ragazzi e le famiglie acquisissero una maggiore confidenza e fiducia. Gli insegnanti, in assenza di altri contatti, hanno dovuto giocoforza valorizzare queste esperienze e addirittura valutare i ragazzi attraverso le produzioni che avevano fatto assieme a noi, perché diversamente non avevano alcun riscontro.
Non solo: da tutto questo è nata l’idea di una didattica diffusa, di una didattica che non è chiusa dentro l’aula, ma che investe l’intero territorio. Era una nostra vecchia idea che finalmente ha trovato attuazione, e che ha visto l’appoggio anche dell’assessore alla Pubblica Istruzione, spalleggiato dal ministro Bianchi che aveva fatto un’esperienza del genere, quella dei patti educativi.
Noi abbiamo fatto un patto educativo territoriale con venti scuole e trentacinque associazioni e tutto questo è accaduto grazie alla pandemia e grazie al fatto che noi abbiamo fronteggiato la pandemia in un modo attivo e non passivo. Questa, se vuoi, può essere una lezione per tutti.
(a cura di Barbara Bertoncin)
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