Il sud di dolci e la Fiat di Panzieri

in memoria

Una Città287 / 2022 ottobre

Intervista a Giovanni Mottura

IL SUD DI DOLCI E LA FIAT DI PANZIERI

Il 3 ottobre Giovanni Mottura ci ha lasciato. Pubblichiamo il ricordo dell’amico Stefano Boffo e brani dell’intervista, ancora inedita, che ci concesse, in più riprese, nei mesi passati; l’intera intervista verrà pubblicata in un libretto dedicato.

Giovanni Mottura, nato a Torino nel 1937, è stato un militante politico ed un intellettuale ben conosciuto nella sinistra italiana. Impegnatosi già da studente nell’Unione socialista indipendente di Cucchi e Magnani, aderì più tardi al movimento giovanile socialista. Giunto nel 1956 in Sicilia per lavorare con Danilo Dolci, Mottura, assieme a un gruppo di coetanei (tra cui Goffredo Fofi, Vittorio Rieser, Emilio Soave, Guido Neppi Modona), partecipò alle lotte di Dolci, tra cui il famoso “sciopero a rovescio” (che lo condusse per un mese nel carcere all’Ucciardone), l’inchiesta fra i disoccupati all’ufficio di collocamento, lo sciopero della fame e l’attività in quartieri palermitani come Cortile Scalilla e fra i contadini nel paese di Bisacquino. Quell’esperienza lo convinse della centralità del lavoro di inchiesta, che in qualche modo è stato poi la “stella polare” di tutto il suo lavoro politico (e anche di quello accademico) non solo come strumento di conoscenza della ­realtà, ma soprattutto come metodo di lavoro politico con la gente. Rientrato a Torino, continuò in anni successivi l’esperienza siciliana dell’inchiesta realizzando, con altri giovani e su impulso di Giovanni Carocci, una grande ricerca sulle discriminazioni politiche alla Fiat, pubblicata prima in “Nuovi Argomenti” e successivamente come volume. Cruciale fu pochi anni dopo l’incontro con Raniero Panzieri, da cui nacque la sua partecipazione alla fondazione dei “Quaderni Rossi”, sicuramente l’esperienza più significativa della sinistra non comunista di quegli anni. Il gruppo di giovani che si riuniva attorno a Panzieri e ai “Quaderni” comprese l’esigenza di dare una risposta politica, al tempo stesso teorica e pratica, alla nuova situazione venutasi a determinare nella classe operaia torinese e, più in generale, nelle classi subalterne del Paese. Attraverso il metodo dell’inchiesta, il gruppo intese accedere alla conoscenza delle nuove condizioni di vita e di lavoro in fabbrica che, nel quadro del cosiddetto “neocapitalismo”, stava vivendo la classe operaia, consapevole che questa pratica costituiva anche una forma di mobilitazione ed organizzazione di classe. Panzieri e il suo gruppo proporranno, con i “Quaderni” e con le attività di inchiesta realizzate in alcune fabbriche dell’area torinese (inizialmente anche con l’appoggio della Cgil torinese), una nuova immagine della classe operaia e del sistema che la governava e sfruttava, affermando una lettura innovativa di Marx, basata anche su testi poco conosciuti come il “Frammento sulle macchine”, per meglio analizzare e confrontarsi con la fase nuova del capitalismo italiano. A questo sforzo teorico e pratico Mottura contribuì anche con alcuni articoli importanti, che estendevano lo sguardo anche al di fuori del proletariato di fabbrica, in particolare nella direzione di un’analisi dei rapporti sociali in agricoltura. Convertitosi al protestantesimo, Mottura aderì alla chiesa valdese, proponendo anche in quella sede il tema del cambiamento sociale e della rivoluzione come questione teologica, scandalizzando i confratelli benpensanti con quello che sarebbe divenuto uno slogan famoso fra i giovani evangelici di fine anni Sessanta: “Ci confessiamo cristiani, ma ci dichiariamo marxisti”, un modo netto di stabilire l’alterità tra il piano della confessione di fede e quello dell’opzione politica. Tra i giovani valdesi, anche con la sua costante partecipazione ai campi estivi che si tenevano presso la Comunità di Agape, acquistò così un prestigio crescente e divenne un riferimento non solo in campo teologico, ma anche politico. A partire dal 1967 si trasferì a Napoli, chiamato da Manlio Rossi Doria a lavorare al Centro di Ricerche Economico-Agrarie per il Mezzogiorno di Portici. Fu l’occasione di tornare a leggere sul campo la questione meridionale, come diceva Rossi Doria, “sporcandosi le scarpe”, cioè facendo inchiesta e studiando il mutamento delle classi popolari meridionali, come ricercatore ma soprattutto in una prospettiva, rafforzata dall’esperienza dei “Quaderni Rossi”, di intervento politico nel Meridione. Una possibilità concretizzatasi con la creazione, assieme a Fabrizia Ramondino, Enrico Pugliese e tanti altri, del Centro di Coordinamento Campano, organizzazione della “extra-sinistra” impegnata sia nei quartieri popolari di Napoli che nei paesi e nelle campagne dell’hinterland partenopeo, attenta al confronto con tutte le declinazioni concrete del proletariato locale. Da qui alcuni degli aspetti più originali del Centro, come l’attenzione al nascente movimento dei disoccupati organizzati o alle giovanissime lavoranti a domicilio del settore del fashion, riconosciuti nella loro natura di proletariato marginale. In questo fu fondamentale il contributo del metodo dell’inchiesta promosso da Mottura, che in quegli stessi anni era anche molto attivo nel diffondere le idee che venivano dalla Cina. La forte impronta di socialismo libertario di Giovanni, talvolta venata di anarchismo, lo portò infatti a condividere le prospettive del Mao che voleva “sparare sul quartier generale” e diceva “chi non ha fatto l’inchiesta non ha diritto di parola”. Nei primi anni Settanta divenne docente di sociologia nella facoltà di economia di Modena, un professore molto amato dai suoi studenti, che gli riconoscevano una grande capacità di ascolto, un’attenzione e una non consueta volontà di collaborazione scientifica con i discenti. Pur continuando gli studi su Mezzogiorno, agricoltura e proletariato marginale, estese in seguito i propri interessi al fenomeno dell’immigrazione, di cui colse la funzione nelle nuove dinamiche del mercato del lavoro. Gli immigrati hanno occupato una parte molto estesa della riflessione di Mottura degli ultimi trent’anni e lo hanno condotto anche ad impegni istituzionali, quali la presidenza dell’Istituto servizi immigrazione del Comune di Bologna, impegnandolo in attività di promozione dei diritti di cittadinanza, di mediazione e di supporto volte a restituire dignità sociale e abitativa agli immigrati residenti. Un’esperienza esemplare di una modalità attivamente inclusiva del rapporto tra popolazione immigrata e città, che ne rese la figura molto popolare ed apprezzata tra gli immigrati bolognesi.

Stefano Boffo
Andare con Vittorio Rieser da Danilo Dolci in Sicilia, “all’estero”, a intervistare contadini, e poi, più tardi, alla Fiat, quando quelli della Cgil erano tutti al confino; il rapporto con Raniero Panzieri e la scelta dell’inchiesta, sempre e comunque, in polemica coi “marxisti dalla cattedra pronta”; l’esperienza di “Risorgimento socialista” e della rivista “Inchiesta”; il ritorno al sud, sulle orme di Scotellaro. Intervista, inedita, a Giovanni Mottura.
 
Negli anni dal 1955-’56 fino al ’63 si cominciava ad affermare nella sinistra un clima nuovo, anche a partire dalla destalinizzazione... successero tante cose. Per quello che riguarda noi, voglio ricordarne due. Anzitutto l’esperienza con Danilo Dolci in Sicilia e poi, più tardi, gli anni della grande ricerca sulla Fiat.
Noi siamo scesi in Sicilia nel ’56, per vedere cosa succedeva, e ci siamo trovati… all’estero! In un’Italia che neanche immaginavamo potesse esistere. Quello che abbiamo trovato lo potete leggere nel libro Inchiesta a Palermo di Danilo Dolci: la prima cosa che abbiamo fatto è stato intervistare i contadini, raccogliere storie di vita... vite che non ci sognavamo neppure che potessero esserci. Figuratevi che, quando sono tornato a Torino, da mia madre, le ho detto: “Guarda, la prima cosa che ho imparato è che se uno non si lava i denti tutti i giorni non gli succede niente”. Erano davvero vite impossibili da concepire per un torinese. Non era soltanto il fatto che quella non era una “società del prezzo fisso”, per cui contrattavi tutto e tanto più il lavoro. Vite terribili, andatele a leggere in Inchiesta a Palermo. Noi abbiamo fatto inchiesta con i contadini, ma anche con i disoccupati davanti all’ufficio di collocamento. Quando Giovannino Carocci è venuto a Torino, era molto giovane anche lui, ha montato questa grossa ricerca sulle discriminazioni politiche alla Fiat, che poi è stata pubblicata prima come numero monografico di “Nuovi Argomenti” e poi come volume. Prima di questo, Vittorio Rieser e io e qualche altro compagno, sia della Fgci sia esterno, non tutti studenti, anche gente che già lavorava, ci vedevamo per discutere e per dirci che eravamo di sinistra; insomma facevamo dei gruppi di studio.
Tutto è cominciato da un gruppo sulla Rivoluzione russa. La Cgil ci permetteva di fare le nostre riunioni in un locale della Camera del lavoro, quella che adesso non esiste più, che era stata costruita dagli operai. È stato anche questo un aspetto importante perché abbiamo agito dentro quella cosa lì, la Cgil, che in quel momento a Torino, e in particolare alla Fiat, era praticamente alla gogna: non aveva più contatti interni, perché tutti i compagni erano stati licenziati o erano nel reparto-confino. Praticamente qualsiasi fossero le loro mansioni precedenti, le loro qualifiche, erano stati demansionati e dequalificati, messi a fare gli spedizionieri. Fino al ’57 era proprio questa la situazione. Questa era la Fiat della Cinquecento ed era però anche la Fiat -questo lo trovo magnifico- che produceva i piccoli trattorini che, non sembri paradossale, hanno avuto una funzione cruciale per il consenso e la pace sociale delle campagne in quegli anni perché, tramite la Federconsorzi e la Coldiretti, che erano democristiane e che avevano una sorta di esclusiva della distribuzione della Fiat per le macchine agricole che si producevano a Torino, i macchinari venivano offerti a credito agevolatissimo e sono serviti per mantenere in una posizione apparentemente produttiva una grossa massa di popolazione delle campagne che altrimenti sarebbe stata in disoccupazione esplicita e dunque avrebbe dato un po’ noia. Questo per dire che l’agricoltura ha avuto una funzione importantissima nel miracolo italiano. Federconsorzi e Coldiretti, assieme ai trattorini, distribuivano pezzi di ideologia. A queste piccole, piccolissime o anche medie aziende contadine, soprattutto ma non soltanto nel Mezzogiorno, anche sulla dorsale appenninica, veniva data la possibilità di continuare a far finta di essere delle vere imprese....

Avevamo questo giornale che si chiamava “Risorgimento socialista” e che nel ‘56, con il congresso di Venezia, confluì nel Psi. In particolare confluì rimpolpando soprattutto la sinistra del Psi, cioè, i morandiani, come vennero chiamati allora.
Dopo saranno chiamati i carristi, cioè quelli che erano a favore dei carri armati sovietici a Budapest, ma in realtà non è assolutamente la stessa cosa. Perché, per esempio, Panzieri, che era uno dei figliolini di Morandi, non è mai stato un carrista. Lì  c’è venuta l’idea di continuare ad andare davanti alle fabbriche, facendo tesoro del fatto che avevamo conosciuto tutti, per esempio i segretari di lega della Fiom e anche della Fim Cisl, i quali facevano quello che potevano e però, insomma, erano fuori dalla fabbrica. Così, d’accordo col sindacato, siamo andati davanti alle fabbriche (non soltanto alla Fiat, dove anzi siamo andati pochissimo) a parlare con la gente, poi andavamo alla Lega e scrivevamo tutto quello che riuscivamo a raccogliere, le varie notizie che si potevano avere, perché ci interessava soprattutto conoscere... non abbiamo mai fatto dei discorsi politici con gli operai, non andavamo lì per dire che ci voleva il socialismo. Ci presentavamo dicendo: “Ci piacerebbe sapere cosa succede nel tuo reparto, cosa pensate per esempio di quella faccenda lì che è stata introdotta nella produzione” e così via, che rapporti c’erano dentro il reparto, dentro l’officina, con gli impiegati. Tieni conto che la sindacalizzazione degli impiegati (non degli impiegati pubblici ma di quelli nel privato), nell’industria, è un fenomeno degli anni Sessanta. Cioè, la sindacalizzazione dei colletti bianchi dell’industria è interessante e non a caso è avvenuta in modo totalmente diverso da com’era avvenuta fino ad allora la sindacalizzazione operaia, cioè attraverso una modalità tipica del movimento studentesco, il gruppo di studio.
Gli impiegati allora erano ben poco interessati al contatto con noi, c’era giusto l’impiegato comunista che metteva i volantini nelle bacheche, che poi le guardie andavano a togliere, ma insomma, erano mosche bianche.
Come approcciavamo gli operai? Mah, si attaccava discorso: gli operai mediamente se tu in quel periodo gli andavi a dare i volantini fuori, ti guardavano e: “Cos’è, un aumento?”, insomma, ti pigliavano per il culo! Poi tieni conto che gli operai in buona parte erano di mestiere, per cui la loro mansione era un lavoro molto qualificato, era gente che sapeva fare, condurre una fresa, o un tornio. Solo ai primi anni Sessanta è arrivata la macchina transfer a Mirafiori; prima gli operai per passare di categoria dovevano chiedere al caporeparto, quando se la sentivano, di fare il cosiddetto “capolavoro”. E il capolavoro era che loro dovevano lavorare sul pezzo al millimetro, era la capacità di non sbagliare su tolleranze ridottissime, per questo si chiamava il capolavoro.

Comunque l’idea era che bisognava partire dal lavoro per capire quali fossero le tendenze in atto. Se si è comunisti o si è socialisti, bisogna partire dal lavoro, c'è poco da fare. Per cui si è avviato un nostro modo di essere, anche di essere insieme, con letture comuni, uno stile di intervento indirizzato a capire e studiare il lavoro, sapendo che l’unico modo per capirlo è capire come si muovono i lavoratori. Il lavoro è un rapporto, non è un’attività individuale, in particolare è il rapporto che si crea all’interno della fabbrica, che era visibile anche in quel momento, molto visibile, appunto perché c’erano gli operai, i quartieri operai, ecc. Poi di fatto si generava una specifica cultura (o sottocultura) operaia, che però non va confusa con la coscienza di classe: esiste anche a prescindere da essa. La mia idea, quella che ho maturato io, è che esisteva una cultura -alla Thompson, tanto per intendersi- che era la vera cultura operaia di quell’epoca, mentre la coscienza di classe è un suo portato in determinate fasi, ma non è mai conquistata, non diventa mai la caratteristica fondamentale di una cultura che è, invece, specificamente operaia.
Questo è un discorso che evidentemente non si ritrova nella discussione tra i marxisti che noi chiamavamo “marxisti dalla cattedra pronta”. Però per noi l’idea era quella: cerchiamo di capire cosa succede in fabbrica attraverso quello che ne dicono e ne pensano i lavoratori. È questo l’approccio che ci permette poi di leggere la teoria quando facciamo riferimento ai testi: li dobbiamo leggere alla luce di questo, non viceversa. Ora, guardate che questo è stato il motivo fondamentale dell’attacco che abbiamo subito al tempo da parte dai comunisti, e non dai socialisti, perché i socialisti erano più liberi, con tutto che il partito socialista poi ha prodotto anche i Craxi. Il nostro riferimento politico erano i socialisti, eravamo Federazione giovanile socialista, anzi allora si chiamava Movimento giovanile socialista. È stato non mi ricordo se nel ‘61 o ‘62 -per una decisione della sinistra del partito- che il congresso di Reggio Emilia del Movimento ha deciso di trasformarsi in Federazione. In questo congresso io sono stato eletto nella segreteria nazionale e Bianca Beccalli recentemente ricordava con molto divertimento che non era neanche previsto che facessi un intervento, ma siccome ero “Quaderno rosso”, mi hanno fatto parlare e lei diceva: “È stato un trionfo” e così sono stato eletto anche se non avevo neppure più la tessera!
Dopo sei mesi ho deciso che non mi piaceva, mi sembrava meschino, non mi andava, proprio non era il mio mestiere fare il politico di professione: ma non ho mica detto o fatto niente, semplicemente ho approfittato del fatto di aver dimenticato di rinviare il servizio militare e sono andato a far l’alpino, sono scomparso. Comunque nessuno è venuto a ricercarmi, quando sono stato congedato.
All’epoca ci sembrava che quello che nella nostra lettura era “neocapitalismo” avrebbe potuto risolvere tutta una serie di contraddizioni del vecchio capitalismo, riaffermando il quadro di dominio capitalista, anche se ci rendevamo conto che ci sarebbe stato un ambiente migliore, non perché noi avessimo l’idea che la società doveva seguire un cammino evolutivo, ma perché in una situazione di quel genere là, una linea di comunista, operaia, o proletaria, si poteva muovere in un quadro comunque di relativa stabilità politica di tipo democratico parlamentare.  
Il nuovo clima permetteva un momento di grande trasformazione anche della classe operaia e coincideva con il riavvio di grandi lotte nei punti importanti, che allora si consideravano cruciali. Certo, anche lì bisognava stare attenti: una cosa era dire, come dicevamo noi, che un’iniziativa di lotta operaia alla Fiat piuttosto che alla Montecatini o alla Edison, era qualche cosa di importante e di influente, che incideva sugli orientamenti politici a livello nazionale. Altra cosa era dire che il centrosinistra era la cosa da sostenere, da portare avanti. Però questo non scansava del tutto gli equivoci, perché anche nel Partito comunista all’inizio, sotto sotto, c’erano molti che pensavano che comunque era bene che i socialisti andassero avanti e facessero il governo con la Dc -e poi vediamo come va- però ufficialmente i comunisti erano contrari al centro-sinistra. Erano contrari al centro-sinistra, almeno questo suggeriva allora la nostra analisi (non so quanto fosse giusta) perché tutto sommato l’idea che quel partito aveva dell’economia italiana, era arretrata. A loro non tornava mica tanto l’idea di ragionare in termini di neocapitalismo, perché la dottrina ufficiale continuava a pensare che il problema era il peso della rendita fondiaria, che era la palla al piede dello sviluppo dell’economia italiana. E questo in qualche modo si sposava con un’idea delle alleanze di classe che nel Pci si era formata durante la Resistenza e che faceva sì che a loro apparisse eccessiva l’insistenza su classe operaia e proletariato come riferimento prioritario, temevano che conducesse a delle posizioni estremiste che avrebbero fatto saltare la politica delle alleanze.
In un certo modo questa era una vecchia storia, che emergeva anche rileggendo le vicende dell’occupazione delle terre e della questione meridionale nell’immediato dopoguerra. Ne avevo conferma anche discorrendo con Raniero, il quale, da segretario regionale del Psi in Sicilia, aveva una grossa esperienza di direzione del Partito socialista durante l’occupazione delle terre.
Quando lui è arrivato, nel ’59, il nostro gruppo (che non era ancora i “Quaderni Rossi”) era già conosciuto a livello di sindacati, mentre non avevamo rapporti diretti col Partito comunista, con la Federazione comunista. Raniero era finito a Torino perché era stato buttato fuori dalla direzione di Mondo operaio, era entrato in Einaudi, assunto per dirigere una bella collana di libri, che ha pubblicato cose importanti, cose del primo Sylos Labini, cose anche di antropologia. Raniero era uno veramente interessante e, a differenza dei dirigenti socialisti che avevo conosciuto, il tipo di cultura che aveva era simile a quella diffusa tra i socialisti più anziani, come Vittorio Foa e Lelio Basso. Gli altri erano tutti delle mezze tacche, culturalmente parlando, mentre per capire chi era Raniero basta vedere i numeri di “Mondo Operaio” che ha curato: si era inventato il supplemento scientifico-letterario, era riuscito a raggruppare un bel gruppo di intellettuali di sinistra, che poi sono stati importanti, anche di fisici, di scienziati ecc. Insomma era stato assunto alla Einaudi, ma lui odiava quell’ambiente torinese, perché poi era un romano, anzi lui, che era ebreo, sosteneva che nei ruolini della sinagoga di Roma la sua famiglia risaliva al tempo dell’impero romano! Era proprio profondamente romano, il suo papà sembrava uno del ghetto, era una cosa impressionante. Dunque, lui non stava bene a Torino, una città del gelo, comunque lui e sua moglie Pucci erano bellissimi anche da vedere, proprio una coppia bella.
A Torino, naturalmente ha subito contattato i dirigenti della federazione del Psi, poi si è guardato un po’ intorno, anche verso i comunisti, gli intellettuali comunisti della Camera del lavoro, Garavini e questa gente qua, e a un certo punto ha deciso che quelli che gli andavano bene eravamo noi, perché lavoravamo davvero con gli operai. Potete immaginare, per noi era stupefacente che uno così decidesse che eravamo noi quelli che gli andavano bene; lui era uno dei principali artefici della politica culturale del Psi dal ’49-’50 in poi, per cui conosceva tutti, anche gli intellettuali, eccetera. Panzieri era una persona straordinaria, ho conosciuto poche persone così accoglienti, proprio a livello personale, che stavano davvero ad ascoltare. Alle prime riunioni che abbiamo fatto c’eravamo Vittorio Rieser e io, che eravamo più o meno conosciuti come quelli che avevano già fatto esperienze nel movimento giovanile socialista, poi gli altri erano tutti un po’ dei marginali della politica ufficiale o buttati fuori (per esempio Emilio Soave era stato buttato fuori dalla Fgci) o venivano da altre esperienze, alcuni erano dei cattolici di sinistra, non democristiani, ma un po’ legati anche alla Fim. Alla prima riunione nazionale che abbiamo fatto (erano venuti su i romani, quelli dal Veneto eccetera) gli unici che ci hanno dato una stanza dove fare l'incontro sono stati quelli del Partito radicale, di Pannella e Pannunzio, tanto che poi uscì un articolo sul “Mondo” e il titolo era “I teddy boys della Cgil”. In quella prima riunione erano venuti su anche Tronti, tutti questi qua di Roma, eccetera. Però ricordo che qualche tempo prima, nella prima riunione che invece abbiamo fatto a casa Panzieri, in strada Dei Mille, Vittorio Rieser aveva detto: “Mah, sì, a Torino facciamo un’inchiesta, però la Fiat è un boccone un po’ troppo grosso per noi, cosa bisogna fare, come l’affrontiamo?”. E Raniero aveva risposto: “Proprio con un’inchiesta!”. Ed era una cosa che diceva a ragion veduta, perché sapeva che noi eravamo quelli che avevano fatto già l’inchiesta all’Olivetti, con il primo convegno sull’Olivetti, a cui aveva partecipato anche Romano Alquati, che era uno degli allievi di Danilo Montaldi che si era trasferito a Torino.
Quando poi abbiamo chiesto a Panzieri come consolidarci da un punto di vista teorico, Raniero ci ha detto: “Guardate che dovete leggere Il Capitale!”. Io avevo letto diverse cose di Marx, ma non quello perché pensavo che non ci avrei capito niente, Vittorio Rieser forse un pochino di più di me, ma anche lui non molto. Così abbiamo cominciato a leggere Il Capitale.
Il primo scritto che ci ha guidato, e che secondo me in qualche modo apre un discorso o tenta di aprire un discorso nuovo all’interno del dibattito sul neocapitalismo allora in corso anche su altre riviste, è l’articolo di Panzieri sui “Quaderni” che poi è passato alla storia come “L’uso capitalistico delle macchine”:  lui aveva ripubblicato il “Frammento sulle macchine” di Marx e poi ha scritto questa cosa sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo. Questa è stata la prima uscita veramente teorica, che si fondava sull'idea che era possibile -e questa era la differenza che noi vedevamo rispetto alle altre nuove riviste che uscivano- rileggere Marx soltanto se si prendeva una posizione chiara da un punto di vista “scientifico”, cioè che l’indagine doveva avere come oggetto il lavoro e quello lo si poteva fare soltanto conducendo un'inchiesta tra i lavoratori. L’altro aspetto, sul piano conoscitivo, era che di conseguenza tutte le iniziative di inchiesta non potevano essere circoscritte all’interno di quello che era un altro processo allora in corso, cioè l'introduzione della sociologia in Italia, con le sue metodologie e le sue caratteristiche d’indagine, ma dovevano essere concepite chiaramente come prassi politica.

Il successivo periodo al Sud è stato sicuramente diverso da questo punto di vista e provo ad esemplificarlo con un articolo di Mimmo Perrotta che è uscito sull’ultimo numero degli “Asini” su Rocco Scotellaro, di cui hanno pubblicato adesso l’opera omnia. Perrotta, tra le cose che dice, fissa una differenza tra l’inchiesta come la pensa Rocco Scotellaro rispetto alle tante inchieste fiorite nello stesso periodo, quelle di Danilo Dolci piuttosto che l’Autobiografia della leggera di Montaldi e il lavoro di tutti quelli che studiavano le storie locali e così via.
Cosa c’è di differente? Che, per esempio, tutti questi comunque avevano in mente la verità, la verità con la ‘v’ maiuscola. E tutti, o quasi tutti, pensavano (questa è un’altra delle caratteristiche della mia generazione) che comunque non bisognava sporcarsi le mani con le istituzioni e le organizzazioni già esistenti. Invece l’idea nostra era che, in determinate fasi, può essere necessario sporcarsi le mani o fare bene i conti con determinate organizzazioni. Non per caso Scotellaro ha fatto il sindaco a Tricarico, si è fatto mettere in galera per un certo periodo facendo il sindaco socialista, ha partecipato con Rossi Doria alla stesura di un piano di sviluppo per il Mezzogiorno, eccetera.
Il Partito comunista poi diceva che eravamo della gente che scambiava i sottoproletari per proletari. Perché tutto quello che succedeva nel Mezzogiorno, gira gira, era il frutto del fatto che il sottoproletariato non è proletariato… non ha la dignità… e non ha coscienza di classe. Tutta la polemica che noi abbiamo fatto, anche per iscritto, anche su “Inchiesta”, è  proprio sul termine “sottoproletariato”. Partendo da Marx, perché lui dice, esplicitamente, che il sottoproletariato è l’insieme dei residui in decadenza di tutte le classi sociali. Di tutte le classi sociali. Cioè i mafiosi, anche quelli ricchi, sono sottoproletariato. Mentre invece uno che fa contrabbando di sigarette, che vende le sigarette per la strada a Napoli, è un proletario che mangia facendo quell’attività.
Per il Pci, quando scoppiava qualche violenza nel Mezzogiorno, quando c’era qualche esplosione di lotte, come prima quando c’era uno sciopero in un frutteto o su terre malcoltivate, eccetera, ecco che saltava sempre fuori questo discorso sul sottoproletariato come nemico dei veri proletari.
Quando è uscito il fenomeno dei disoccupati organizzati, che era straordinario, ne abbiamo scritto Fabrizia Ramondino, Enrico Pugliese, Maria Fonte e io, ma ne hanno scritto anche altri. Occorreva capire, riconoscere che era proprio un’innovazione importantissima. Se tu pensi al proletariato e agli scritti di Marx quando dice che un movimento è rivoluzionario quando la classe operaia si allea organicamente con l’esercito operaio di riserva o con la sovrappopolazione relativa, perché vi si riconosce in qualche modo: ecco, è la nascita delle liste, questo modo peculiare di organizzarsi per liste dei disoccupati a Napoli. Le liste facevano riferimento ai quartieri di Napoli, però erano diventate un momento di incontro e di organizzazione. Era la prima volta, la prima in assoluto nella storia, che i disoccupati di Napoli non si pensavano ciascuno come povero disgraziato in concorrenza con gli altri, a cui si poteva, si doveva rubare il lavoro. Cioè era un movimento veramente da riconoscere, per dargli spazio, per dargli respiro, eccetera, mentre invece Comune e Cgil (al comune c’era il Partito comunista allora) sono riusciti a scontrarsi con i disoccupati organizzati, con tutte le liste. Si diceva che i disoccupati sono sempre stati di destra, perché il sottoproletariato è di destra, non è di sinistra. La battaglia più grossa, secondo me, che abbiamo fatto nel Mezzogiorno, è stata proprio quella del riconoscimento di una legittimità del sottoproletariato come alleato della classe operaia.
(a cura di Barbara Bertoncin, Bettina Foa, Stefano Boffo)
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