Ulla Rütter in Afghanistan conobbe e sposò un architetto italiano. Vive a Milano.

Non ho mai saputo come mio padre fosse diventato un fanatico nazista, so solo che prima della guerra era nella polizia. Ho un po’ di difficoltà a ordinare i ricordi, la mia memoria non mi dà retta, li tira fuori così, come la roulette tira fuori i numeri. I primi ricordi risalgono alla mia vita in quella caserma. Io ero nata nell’ottobre del ’39, un mese dopo l’invasione della Polonia, in una caserma nella Saar, non lontano da Metz, alla quale mio padre era stato destinato. Io ero la terza figlia. Ricordo che mia sorella, la quarta, nacque con un dentino già spuntato, il che fece un gran clamore e poi ricordo che al centro di questa caserma c’era un edificio abbandonato, penso non più in uso dalla Prima guerra mondiale, dove a noi era assolutamente vietato entrare. Per giocare avevamo delle zone ben precise, solo che noi non le rispettavamo. C’era un gruppo di bambini, tutti, più o meno, tra i 5, 6, 7 anni, che aveva formato una banda che scorrazzava per tutta la caserma, e ne conoscevano ormai tutti i segreti. Mi ero aggregata a loro e ricordo che avevamo iniziato a violare il fabbricato proibito: era molto buio, la luce arrivava soltanto da un grande portone, c’era un lunghissimo corridoio con la sabbia e la terra. E dopo la prima volta che era andata bene, avevamo cominciato ad andare in esplorazione là dentro con una certa regolarità, ci giocavamo anche a nascondino. Ma ero la più piccola e ogni tanto i compagni mi scaricavano perché facevano delle incursioni troppo pericolose e per farlo non trovavano di meglio che raccontarmi delle storie paurose. Sapevano che io ero paurosa, che avevo paura del buio, del sangue, delle persone che gridavano, quindi mi prendevano un po’ in giro.
Poi ricordo benissimo la paura dei cani pastori, perché in un campo vicino, separato da una rete, c’erano gli addestramenti, e urlavano e c’era uno che urlava più di tutti che mi faceva un’impressione terribile. L’addestratore, probabilmente. E ricordo quando domandai a mia mamma se quell’uomo dalla voce cattiva, che probabilmente era un istruttore, poteva essere un ebreo travestito da cristiano. Mia madre mi saltò addosso, mi prese per le spalle, io ero spaventata a morte, urlando: "Chi ti ha detto questo? Chi ti ha parlato di questo? Chi ti racconta queste storie? Vieni a raccontarlo a me se ti dicono qualcosa. E soprattutto stai lontana da quell’uomo lì".
Ero molto spaventata. Quell’uomo mi faceva paura e già allora, ero piccolissima, qualcuno, forse i bambini più grandi, mi doveva aver detto qualcosa a proposito degli ebrei. Il razzismo è un po’ difficile farlo capire ai bambini, non sono preparati, e allora si comincia con la paura. Ricordo le storie che giravano sugli ebrei nascosti, sugli ebrei che venivano fuori, gli ebrei che mi volevano perché io ero bambina e cristiana, gli ebrei che tagliavano il pisellino ai maschietti. Poi, c’è stato un altro periodo in cui avevo paura dei russi, che erano ferocissimi, con la spada, e noi non potevamo assolutamente lasciare la caserma perché erano appostati nel bosco, pronti a tagliare la testa ai bambini che osavano inoltrarsi da soli nel bosco.
Mio padre non lo ricordo assolutamente in quel periodo.

Ricordo, certo, quando lasciammo la caserma. Mio padre non c’era più, era stato mandato in Russia, così almeno dicevano. Mia madre con i 5 figli, tanti eravamo, quattro femmine e un maschio, diventò profuga in Germania, tornò a Düsseldorf, sua città natale, e lì loro vissero in condizioni disperate, in una baracca fra le rovine. Io fui spedita dalla zia Anna in campagna (mio padre era di origine contadina), perché dovevo iniziare ad andare a scuola. Ebbene, ero già da qualche mese dalla zia Anna, quando alla porta bussò una persona che a me sembrò un mendicante con le stampelle. Invece la zia fece un gran urlo e abbracciò mio padre. Però così non mi piaceva proprio, l’avevo sognato un po’ più eroico, magari anche in uniforme, ma diverso da uno straccione zoppicante. Così, appena fu trovata una casa, ci raggiunsero mia madre e tutti gli altri fratelli. La campagna era una necessità, lì una famiglia poteva sopravvivere, ma mia madre si sentiva una sfollata, e lo era, non era a casa sua, odiava quel posto, lo chiamava "la monotonia della Germania del nord".
E ricordo la mia felicità di rientrare finalmente in famiglia. Un’illusione durata poco: il tempo di accorgersi che nostro padre be ...[continua]

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