Pier Cesare Bori insegna Filosofia Morale e Storia delle dottrine teologiche presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna. Tra le sue opere, Per un percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta (con S. Marchignoli), La Nuova Italia Scientifica 1996. Recentemente ha pubblicato La pluralità delle vie, Feltrinelli.

Nella premessa al suo ultimo libro parla di un suo interesse verso Pico della Mirandola in rapporto al tema del multiculturalismo, e insieme della tolleranza e dell’universalismo. Può parlarcene?
Ho scoperto solo tardi che c’era un rapporto. Proprio in questi giorni leggevo sul giornale che è stata scongiurata una modifica alla futura Costituzione Europea che insisteva sulla tradizione umanistica e religiosa europea, voluta da parte della Destra bavarese, con una nozione di umanesimo che è, appunto, specificamente cristiana e certamente non pluralistica. Invece mi sono reso conto che l’umanesimo, e precisamente quello religioso, si misurò in profondità con questo problema della pluralità delle culture, perché in quel momento, nella seconda metà del Quattrocento, in Italia e in Europa si incontravano, e si scontravano, influssi e tradizioni molteplici come non mai in Europa. L’umanesimo si pose il problema; prima di Pico, già Marsilio Ficino, poi Pico e altri ancora se lo posero in maniera molto originale e interessante.
Questo è dovuto anche a circostanze storiche ...
Certo, alla fine di Costantinopoli l’incrocio e lo scambio tra culture avveniva in maniera ormai intensa, anche se non era dovuto tanto a migrazioni di persone, quanto alla conoscenza di testi. Quindi il lavoro di questi umanisti resta più una riflessione teorica sulle culture, attraverso una conoscenza delle fonti, senza una conoscenza diretta, anche se c’erano dei mediatori culturali, soprattutto interpreti e traduttori ebrei. Tuttavia, pur con tale limite, sicuramente questo umanesimo ci può dire molto. Quindi sarei contro una concezione univoca dell’umanesimo e contro l’idea di una tradizione cristiana umanistica europea; al contrario, questa è una tradizione pluralistica.
Si potrebbe dire che in questo umanesimo c’era anche una tensione utopica verso la “concordia”?
C’era un’idea di pace filosofica, che porta Pico a quest’operazione delle Novecento Tesi; ma forse questa parte la chiamerei velleitaria, più che utopica, nel senso che la lettura che Pico dà delle diverse culture è una lettura concordistica in cui forse non arriva a discernere le differenze in profondità, insomma, le supera in maniera un po’ facile. Questo tipo di procedimento in realtà nei suoi contenuti non raggiunge dei risultati veramente notevoli.
Quello che mi sembra invece più interessante non è tanto la “concordia”, quanto l’idea di una pluralità delle vie, in cui la concordia è nell’isomorfismo, nel parallelismo delle vie. Le vie sono molteplici, ma tutte hanno una struttura comune, che è il percorso segnato dal momento morale, poi da quello intellettuale e infine spirituale. In fondo Pico pensa di poter dire che in tutte le vie, in tutte le culture a lui note, e ne esemplifica alcune, esiste una struttura comune. E questo mi sembra molto interessante.
A questo proposito lei insiste in particolare sul metodo del bilinguismo di Pico?
Sì, sottolineo la questione del bilinguismo (il ricorso contestuale al linguaggio biblico e a quello filosofico, ndr), che è poi la possibilità di parlare la propria lingua ma anche la lingua di altri, o comunque di avere una lingua comune che permette di teorizzare la pluralità delle vie. Le vie sono plurali, e allora per capire che ci sono molte vie, per dire come Simone Weil che “ogni religione è l’unica vera”, bisogna al tempo stesso essere dentro e fuori a quella cultura. Bisogna avere due lingue: una, quella non relativistica, che ti consente di continuare ad aderire alla tua tradizione; l’altra, piuttosto relativizzante, che ti fa comprendere l’analogia tra la tua tradizione e quella degli altri.
Dunque non si tratta propriamente di una traduzione dall’una all’altra?
La traduzione sicuramente è uno dei punti più interessanti di questa “seconda lingua” come lingua universale, la possibilità cioè di tradurre i contenuti da una all’altra. Pico la pratica, arrivando a delle concordanze, a un concordismo un po’ semplicistico, del tipo “questo vuol dire questo, e vuol dire questo”, etc. Ma la sua scoperta più interessante è piuttosto la traducibilità per quanto rigu ...[continua]

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