Massimo Ilardi è ricercatore presso l’Irsifar di Roma e collabora a Il Manifesto e L’Unità. Sulla metropoli ha curato La città senza luoghi (Theoria).

Potremmo partire dal comportamento consumistico dei giovani, dal loro rapporto con l’individualità...
Per capire la volontà di consumo bisogna partire dal desiderio di libertà che è l’elemento determinante della vita metropolitana; io ritengo, infatti, che ancora oggi la città renda liberi.
Occorre comunque partire dagli anni ’70, quando andò in crisi l’agire politico classico e con esso gli strumenti della politica: l’organizzazione, il partito, la militanza. Con questa forte crisi dell’agire politico (che non ha saputo rinnovarsi, tant’è che oggi al governo abbiamo un ceto economico che nulla ha a che vedere con un ceto politico classico) è andato in crisi in maniera determinante anche lo spazio pubblico che su quell’agire, sulle istituzioni, sul partito, sull’organizzazione, sulla militanza, sui tradizionali spazi d’interazione pubblica, s’innervava. Questa crisi dello spazio pubblico ha liberato, secondo me, delle energie impensabili nel senso che quel tipo di spazio pubblico, che poneva la politica al centro della vita dell’individuo, aveva anche un obiettivo preciso: controllare e integrare gli individui dentro le istituzioni.
Tutti gli spazi pubblici hanno avuto questo obiettivo, gli stessi partiti politici che sono stati il soggetto attivo di questi spazi pubblici erano ritagliati e semplificati sulla macchina dello stato: vedi il Pci, il Psi o la Dc, che dentro lo stato ci viveva addirittura.
Le nuove generazioni non hanno più come obiettivo la conquista del potere né la militanza in organizzazioni politiche che, quindi, in quanto politiche, abbiano questo obiettivo, ma hanno l’obiettivo del massimo della libertà possibile, di una libertà non astratta, giuridica, non quella formale del cittadino di cui tanta sinistra si riempie la bocca, ma di una libertà materiale, concreta, spaziale. La libertà, cioè, di attraversare la metropoli, di agire dentro la metropoli, di conquistare spazi materiali di libertà che non servono solo a rendere più libero l’individuo, ma anche, e qui sta la disperazione della vita metropolitana, a ricercare un’identità. In un mondo di tutti uguali, che omologa tutti, dove tutti vestiamo e mangiamo alla stessa maniera, abbiamo gli stessi desideri e necessità, in un mondo informatizzato e computerizzato al massimo, dove ormai la tecnica invade la vita di ognuno, la disperazione va alla ricerca di un’identità, ma non di un’identità fondante, che dia un fondamento alla vita dell’individuo come l’identità politica o quella lavorativa, ma un’identità leggera, anche momentanea, da sabato sera: un’identità, cioè, che spesso si ritrova nei consumi. Mettersi una maglietta rossa o nera, mettersi il cappello in una certa maniera, portare i jeans levi’s o scoloriti, andare in discoteca o a un rave-party, ascoltare la musica rap o heavy, sono tutti modi di consumare determinanti nel dare identità, un’identità molto labile, molto soft, ma comunque importante. E non vale dire che poi quello che si compra è tutto uguale, perché, per ricevere identità, è importante il significato che diamo a ciò che compriamo. Tant’è vero che non si può parlare di culture giovanili se non si riesce a decodificare le migliaia di segni che riguardano il vestiario, il modo di ascoltare la musica, i luoghi frequentati.
La città, quindi, continua a liberare. Ma è cambiata la città?
Quando noi pensiamo alla città pensiamo alla polis, o alla città industriale e operaia disegnata sulle esigenze della fabbrica, ma ora questo tipo di città non esiste più perché le mura della città sono cadute al suono dei media. Se la città classica, per essere tale, aveva bisogno di confini, di mura, di una divisione netta fra quello che era città e quello che non lo era, fra la città e la campagna o la periferia, oggi queste divisioni sono crollate definitivamente: non vi è più differenza fra centro e periferia, le parti, anzi, si sono invertite e ormai è la periferia ad avere una cultura egemone dentro una città che vince sulla vecchia cultura delle classi borghesi del centro. Se andiamo a fare dei giri in periferia vediamo che in certi casi, accanto ai quartieri residenziali, ci sono le bidonvilles, il miscuglio a livello residenziale non dà più modo di distinguere centro e periferia.
La città era anche il luogo della politica, infatti, lì si decidevan ...[continua]

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