Una Città287 / 2022
ottobre


Nel febbraio 1948 il dirigente comunista Klement Gottwald si affacciò al balcone di un palazzo barocco di Praga per parlare alle centinaia di migliaia di cittadini che gremivano la piazza della Città Vecchia. Fu un momento storico per la Cecoslovacchia. Un momento fatale, come ce ne sono uno o due in un millennio. Gottwald era circondato dai suoi compagni e proprio accanto a lui c’era Clementis. Faceva freddo, cadevano grossi fiocchi di neve, e Gottwald era a capo scoperto. Clementis, premuroso, si tolse il berretto di pelliccia che portava e lo posò sulla testa di Gottwald. La sezione propaganda diffuse in centinaia di migliaia di esemplari la fotografia del balcone da cui Gottwald, con il berretto di pelo in testa e il compagno a fianco, parlava al popolo. Su quel balcone cominciò la storia della Cecoslovacchia comunista. Dai manifesti, dai libri di scuola e dai musei, ogni bambino conosceva quella foto.
Quattro anni dopo Clementis fu accusato di tradimento e impiccato. La sezione propaganda lo cancellò immediatamente dalla storia e, naturalmente, anche da tutte le fotografie. Da allora Gottwald, su quel balcone, ci sta da solo. Lì dove c’era Clementis c’è solo la nuda parete del palazzo. Di Clementis è rimasto solo il berretto che copre la testa di Gottwald...
(Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio)
ottobre 2022

I poveri che vanno in guerra
La Russia e l’Ucraina, la storia e le memorie
Intervista a Nicolas Werth

Una netta tendenza antiputiniana
Sul malcontento in Russia
News da “Meduza”

Solo una aveva il velo
Sulla situazione in Iran
intervista a una giovane iraniana

Quel trattino
Su identità nazionali e cosmopolitismo
Intervista a Guido Montani

Il sud di Dolci e la Fiat di Panzieri
intervista, inedita, a Giovanni Mottura

Ricordiamo Learco Andalò
L’eresia dei magnacucchi sessant’anni dopo

L’ultimo dei magnacucchi
La storia di un gruppo di eretici antistalinisti
Intervista, già pubblicata, a Learco Andalò

Però era bello
La storia di una ragazza staffetta partigiana
Intervista a Nara Lotti

Pensieri censurati
Sulla censura “progressista” alla letteratura passata
Stephen Eric Bronner

Il mito dello stato secondo Cassirer
Alfonso Berardinelli

Ma quali cooperative cerchiamo?
Massimo Tirelli

Garibaldi
Matteo Lo Presti

Picchiato a morte per un bacio?
Emanuele Maspoli

Quando hanno eletto Margaret Tatcher...
Vicky Franzinetti

Clima estremo e demografia estrema: rischi e sfide
Vittorio Filippi, da Neodemos

Enough is enough
Belona Greenwood


La visita è alla tomba di Jean Monnet
La copertina è dedicata a Nika Shakarami e alle giovani iraniane che si sono ribellate all’oppressione teocratica e hanno pagato con la vita. Nell’ultimo mese li abbiamo visti in opera i tre fascismi, il nero, il rosso e il verde, uno peggio dell’altro, tutti odiosi, e sodali fra loro. È con questo che qualsiasi sinistra deve confrontarsi, perché la lotta per la libertà è la sua prima ragion d’essere. E invece? Invece siamo il paese dove la sinistra s’è opposta di più all’invio di armi agli ucraini, salvo poi scatenarsi contro gli “ex” o “post”, o al peggio “pre-fascisti”, che hanno vinto le elezioni. Un quotidiano che ha ancora il coraggio, o l’arroganza solipsistica, di chiamarsi comunista, intitolava “arrivano i mostri” a proposito dei nuovi ministri italiani. Evidentemente hanno a disposizione una vasta gamma di epiteti o, per loro, più semplicemente, Putin non è un mostro. Ma anche dai tanti che non odiano gli Stati Uniti e la Nato al punto di tifare Putin, si sente invocare continuamente il multipolarismo, quasi non importi che più di metà dell’umanità non abbia la libertà. La consideriamo un patrimonio etnico del cosiddetto Occidente? Da godere in una rassicurante coesistenza pacifica coi tiranni che permetta ai nostri commerci di prosperare? È sinistra questo?
Poi: non è una novità leggere articoli che, ammiccando alle bollette, trasudano antipatia per gli ucraini e tentano di infamare Zelensky, ma vederli condivisi da pacifisti e pacifiste in buona fede, questo sì, fa male. Il connubio fra il pacifismo e il peggior cinismo geopolitico fa diventare gli strenui difensori delle loro case e del loro paese stupide pedine di potenze e interessi stranieri, spesso occulti, e vittime non solo dell’aggressore ma anche dei loro leader corrotti. Se poi i resistenti, già giudicati irresponsabili quando erano dati senza speranza, cominciano ad avere la meglio, il merito non è del loro coraggio e spirito di sacrificio, ma solo di armi micidiali fornite loro da “altri imperialismi” per secondi fini, mentre sarà tutta loro la colpa delle criminali rappresaglie del prepotente umiliato e comunque sempre invincibile. Vengono alla mente i processi per stupro d’un tempo, quando la vittima era colpevole e lo diventava doppiamente se osava alzare la testa. Così, pur di non nobilitare una guerra di liberazione, si nega quel che tutti i generali sanno, che a decidere le guerre possono essere anche “il morale e la morale”, cioè il sentirsi, e l’essere, dalla parte del giusto. In tanto pacifismo sembra esserci un desiderio recondito che tutti siano cattivi, per poi, dall’alto della propria benevolenza, promuoverli in blocco a vittime della stessa malattia: la guerra. È quella che va debellata. La legittima deontologia della professione medica che impone di curare allo stesso modo una Ss ferita e il prigioniero torturato in fin di vita, diventa così una mostruosa deontologia dell’universale professione umana. Così parole come libertà, giustizia, responsabilità, onore, solidarietà, verità, patria, perdono ogni rilevanza e a valere ne restano solo due, vita e pace, a cui tutto deve essere piegato. È sinistra questo?
Infine fior di intellettuali hanno messo a punto un “piano di pace” che prevede la resa degli ucraini proprio perché stanno riconquistando la loro terra palmo a palmo. Il motivo? La minaccia atomica. La domanda inevitabile è: se avessimo di fronte un Hitler? E facciamo il caso che allora, anche Hitler, come gli americani, avesse avuto le atomiche: su cosa avremmo potuto trattare per fare la pace? Sulla Cecoslovacchia, la Polonia, su cosa? Casomai anche sul numero di ebrei? Sulla chiusura di Auschwitz?
Lontano da Kiev la sinistra muore. Se Giorgia Meloni manterrà la promessa di andarci al più presto, su questo saremo con lei. In nome, per quanto ci riguarda, della solidarietà antifascista col popolo ucraino.

Nel numero ricordiamo due grandi persone: Giovanni Mottura e Learco Andalò; poi parliamo di Russia con Nicolas Werth e di cosmopolitismo con Guido Montani; “la storia” è quella di Nara Lotti, staffetta partigiana; poi Stephen Bronner ridicolizza la censura “progressista” retroattiva che si sta scatenando nel mondo anglosassone contro la letteratura e i suoi capolavori, accusati di razzismo, sessismo, classismo; Alfonso Berardinelli ci parla di Cassirer e del mito dello stato, Matteo Lo Presti di Garibaldi, Belona Greenwood del “trauma Truss”, Vicky Franzinetti dei pregiudizi a proposito di minoranze e politica, Massimo Tirelli di cooperative selvagge, Emanuele Maspoli della possibilità di morire per un bacio. “La visita” è alla tomba di uno dei grandi dell’Europa: Jean Monnet.