Insieme nella solitudine

La notizia, noi a Sarajevo, I’abbiamo capita così: per molto tempo il nostro amico Adriano Sofri non potrà venirci a trovare. Non bisogna spiegare a nessuno di coloro che hanno resistito a Sarajevo chi è Adriano Sofri. Soprattutto per i più giovani, ha rappresentato la prova che la giustizia e gli amici di tutto il mondo non sono una finzione. Oggi qualcuno ci vuole dire che, in nome della giustizia, non può venire a Sarajevo. Non so quale tipo di giustizia ha violato. L’Italia è tuttavia un Paese che conosce il senso di giustizia, per questo spero che un giorno il suo problema sarà risolto. Ma se è vero che, in nome della giustizia, Adriano Sofri è in prigione e non viene a Sarajevo posso solo commentare: è una prova in più che la giustizia a favore della gente di Sarajevo non esiste.
Sappiamo molto bene che l’idea della giustizia a Sarajevo, durante questi cinque anni, è stata completamente diversa rispetto a quella in voga nel resto del mondo. Abbiamo pensato che la giustizia serve per le persone semplici e non per le grandi teorie e i grandi principi. Abbiamo capito che Adriano Sofri è diventato un sarajevese semplicemente perché ha condiviso lo stesso senso di giustizia. Noi eravamo felici quando leggevamo i suoi articoli o vedevamo in tv le sue battaglie polemiche con i politici italiani. Leggere e vedere è stato tuttavia il privilegio di una ristretta cerchia di bosniaci. I ragazzi di Sarajevo come Fadil, come quelli che abitano attorno al mercato, le persone come Nadira e Kanita, non hanno letto e visto, ma sapevano comunque che Adriano rappresenta la prova evidente che la nostra visione della giustizia è assolutamente giusta. Mi ricordo l’inverno del 1994 quando dei ragazzi di Sarajevo che non avevano mai conosciuto né la Coca cola né i dolci, hanno potuto bere vera Coca cola e mangiare veri dolci portati da Adriano chissà da dove. Mi ricordo il giorno in cui prese le misure per i jeans o per le scarpe da tennis per gli stessi ragazzi di Sarajevo. Non ha mai fatto promesse false, ha sempre rispettato le sue parole: al viaggio successivo c’erano i jeans e le scarpe da ginnastica. Mi ricordo ancora quel viaggio, perché c’ero anche io nella piccola Uno bianca di Edo. Passammo dalla pista del monte Igman un giorno in cui nessun altro ha osato farlo. Ci spararono addosso con le mitragliette della contraerea, I’automobile fu colpita. Quando arrivammo a Hrasnica, fine pista, Adriano, accanto alla macchina distrutta, disse una cosa assolutamente incredibile: “Spero non abbiano danneggiato il pacco dei jeans e delle scarpe da ginnastica”.
Sarajevo ha perso la guerra perché la nostra idea della giustizia e dell’umanità è stata violentata dalla filosofia dell’interesse e dell’egoismo. Per questo noi, i combattenti di Sarajevo, siamo rimasti formalmente liberi, in realtà prigionieri sino alla fine dei nostri giorni. Adriano è stato uno di noi, col suo senso dell’umanità e della dignità. Abbiamo pensato che dovesse rimanere a Sarajevo con un passaporto bosniaco e un lavoro di responsabilità, naturale per lui e per noi. Ha respinto questa nostra proposta, voleva continuare a combattere per le sue idee e i suoi principi nel suo Paese.
Purtroppo, esattamente come noi che abbiamo perso la guerra, anche lui l’ha persa in Italia. Non chiediamo nulla per lui, sappiamo che non lo vorrebbe: ci ha insegnato la bellezza della gratuità delle azioni. Senza Adriano Sofri, I’Italia ha bisogno di reinterrogarsi su se stessa. Senza Adriano Sofri, Sarajevo sarà una città triste. Resta solo una consolazione: saremo assieme in questa solitudine.
 Zlatko Dizdarevic


Quell'inverno del 93

Cari amici, le notizie che mi giungono dall’Italia sono incredibili e mi stanno arrecando un dolore che ho già provato solo un’altra volta nella mia vita.
Ho incontrato Adriano a Sarajevo durante l’inverno del 1993. Stavamo soffrendo già da quasi un anno per la guerra, non avevamo più niente: luce, legna, acqua, cibo, proprio niente. Era venuto a casa mia con altri giornalisti, ricordo che avevo le mani tutte gonfie, rosse, ferite, perché avevo appena fatto il bucato con l’acqua gelata. Per la prima volta si parlava in Europa di un possibile intervento, forse di un bombardamento dei punti strategici usati dai nostri nemici. Abbiamo parlato della situazione politica, dei miei pensieri sulla guerra, delle mie speranze per la vita, di quello che era successo in casa mia, come era stato ucciso mio marito ...[continua]

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