Dunia e Nescio Vitlacil sono di Sarajevo, erano là durante l’assedio, della loro storia sappiamo quasi tutto, né più né meno dolorosa di una normale storia di guerra e di esilio, di vite rivoltate come un guanto a cinquant’anni: “Cambiate al 200%” dice Nescio, che a Sarajevo faceva l’avvocato e a Forlì fa l’operaio. Sappiamo anche dei loro figli, pressappoco coetanei di Laszlo, studenti al liceo scientifico e alla facoltà d’informatica. Sappiamo infine che la pensano diversamente sulla possibilità di ritornare.
“Dunia vorrebbe, io no. Non riesco ad accettare come sono cambiate le cose là. La società è cambiata, adesso sono tutti divisi, c’è troppo odio, sono state distrutte le relazioni sociali e non sono cose che si possono ricostruire insieme alle case. Se tornassi mi sentirei straniero nel mio paese. Mio figlio dice che, se deve essere un extracomunitario nel suo paese, preferisce esserlo in Italia. Io sono croato per parte di padre e serbo di madre, Dunia è musulmana, e i nostri figli? Che nazionalità hanno Dejan e Boris? Perché là adesso è peggio di quando c’erano i comunisti, se non hai una certa identità nazionale non puoi fare niente. Io non sono mai stato comunista, eppure potevo lavorare, potevo vivere tranquillamente, scegliermi uno stile di vita e continuare a pensare quello che volevo, in una certa misura potevo anche dirlo. Ora non potrei, non a Sarajevo”.
“E’ vero quello che dice Nescio ma per me vivere lontano è troppo doloroso. Qui mi manca tutto: i parenti, mia suocera, che per me è come una madre, gli amici, il nostro modo di vivere, i tempi e i ritmi delle nostre giornate. Io lavoravo in una banca, gestivo conti esteri? Eravamo 300 impiegati, durante l’assedio in un centinaio abbiamo continuato a lavorarci volontariamente, per tenerla aperta e difendere il nostro lavoro, le nostre relazioni umane. Ora la banca è bruciata e la mia vita a Sarajevo mi manca moltissimo. Sai quante notti mi sogno i miei colleghi”?
Chissà cosa sognava Laszlo, sicuramente avrà sognato in ungherese, dato che non sapeva una parola d’italiano. Dicono che al momento dell’arresto non mangiasse da 3 giorni e potrebbe anche essere vero perché, che non se la passasse bene era evidente: quando l’hanno preso aveva addosso una tuta sdrucita e una maglia, nel magazzino del carcere sono rimasti solo il suo passaporto e qualche foglio. L’hanno accusato di rapina impropria per aver reagito all’arresto, fosse stato calmo avrebbe preso solo tentato furto. Poi la trafila è stata quella solita: questura, gabbioni e carcere. Già nei gabbioni, dove si resta per il tempo necessario all’espletamento delle pratiche e all’immatricolazione, Laszlo ha manifestato tendenze autolesioniste: era molto agitato e pestava la testa contro il muro. Evidentemente è stato questo a suggerire il trasferimento nella cella di isolamento ed è qui che la mattina del 13 ha tentato il suicidio impiccandosi coi pantaloni della tuta. Se ne sono accorti in tempo per salvarlo e ricoverarlo in infermeria, dove nella notte fra il 13 e il 14 ha messo in atto il secondo tentativo, costruendosi un cappio con le lenzuola legate alle sbarre della finestra del bagno.
L’hanno trovato tardi, appeso a una finestra troppo bassa per morire, ma non per soffocarlo e provocargli un coma postanossico. Il secondino per regolamento non può entrare nell’infermeria se non è accompagnato dal personale medico e l’infermeria del carcere di Forlì non è completamente controllabile dall’esterno.
Nescio ha una sua idea su questa morte: “Il modo in cui si è ucciso può dire che ragazzo era. Un ragazzo giovane, che tenta di rubare qualcosa che probabilmente gli serve per procurarsi dei vestiti, viene messo in carcere e lì tenta 2 volte il suicidio nel giro di 24 ore. Beh, non è certo una ...[continua]
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