Una volta che la guerra si è scatenata, gli ultimi vestigi di una presa sui fatti si perdono: c’è la guerra, ci sono quelli che la fanno e la soffrono, e ci sono i militari e i politici che «improvvisano d’ora in ora degli espedienti».
Nicola Chiaromonte, 1966
A miasma of trouble hangs over everything.
Lady Bird Johnson, 1967
La First Lady degli Stati Uniti scrisse queste parole nel suo diario mentre la guerra in Indocina, perseguita da suo marito, entrata nel secondo anno di operazioni, stava degenerando in un pantano sanguinoso e senza fine, con spese folli e un crollo del sostegno nazionale. Man mano che il conto delle vittime cresceva, si aprì una separazione drammatica (nota come “gap di credibilità”) tra le dichiarazioni ostinatamente ottimistiche dell’amministrazione sui “progressi” di avvicinamento alla “vittoria” e lo scetticismo della stampa e dell’opinione pubblica. Il veleno di una guerra avventata toccò l’intera alla Bianca.
Ora, mentre l’operazione “Iraqi Freedom” entra nel suo quarto anno di attività, un miasma simile è calato sulla presidenza di George W. Bush. I sondaggi mostrano sistematicamente come il suo consenso si sia infangato ai livelli minimi storici, mentre gli stessi membri del partito repubblicano cominciano a contestare apertamente le sue politiche, ed il termine “incompetenza” inizia ad avere una diffusione ed una risonanza inimmaginabili nelle prime fasi del suo mandato. I problemi principali per la Casa Bianca hanno avuto origine da un insieme di passi falsi interni, che hanno palesato chiaramente -a coloro che ne avevano negato l’esistenza durante il primo mandato- una serie di errori di calcolo, favoritismi, corruzione e abusi di potere contrari ai principi dello stato.
La lista dei dietrofront che sono stati fatti nel corso dell’ultimo anno è lunga e variegata, e comprende un tentativo fallito di privatizzare la previdenza sociale, una candidatura frettolosamente ritirata (e palesemente illegittima) per la Corte Suprema, un deficit in salita vertiginosa che impone tagli nei servizi sociali a qualsiasi livello dello stato, procedimenti penali nei confronti dell’assistente del vice-segretario del presidente e del leader della maggioranza del parlamento (con altri funzionari di alto livello sotto indagini continue), intercettazioni telefoniche illegali, ed il tentativo di consegnare la sicurezza portuale ad una compagnia di Dubai, contrastata dal 90% degli americani. Un’indicazione di quanto l’amministrazione si sia allontanata dalla spavalderia e dall’aura di invulnerabilità iniziali è stato l’episodio che ha coperto di ridicolo il Sig. Cheney durante una sventurata battuta di caccia; i suoi discorsi da “terra bruciata” ed il suo volto torvo lo rendono un personaggio particolarmente impopolare. Ma il vero punto di svolta per la squadra di Bush, il momento in cui è crollata la sua credibilità, probabilmente per sempre, ha avuto luogo con la catastrofe dell’uragano Katrina, quando è emersa la colpevole incapacità dell’amministrazione di prendere delle contromisure adeguate. Mentre la televisione mostrava l’orrore di New Orleans, si diffondeva la profonda consapevolezza che “l’imperatore era nudo”. Mentre i cittadini soffrivano inutili traumi e morti, i funzionari della Sicurezza Interna, e tutti gli altri fino ai vertici, bighellonavano.
E poi c’è l’Iraq. Tre anni fa, durante l’iniziale fase hollywoodiana dell’invasione, con gli spettacoli pirotecnici del “colpisci e terrorizza” e con un’oculata teatralizzazione delle statue demolite, ho fatto notare in questo giornale come molti temessero che stesse per cominciare un nuovo Vietnam. Sfortunatamente è ciò che è successo, a dispetto della campagna di Bush, Cheney, Rumsfeld e Rice che, favorita dalla compiacenza dei media, ha cercato di escogitare un “espediente” dopo l’altro per giustificare l’invasione e dare un aspetto più presentabile alla strage che ne è risultata. Mentre inizia il quarto anno di quella che è ora una guerra di logoramento, i soldati americani, oramai esausti, si trovano a dover contenere sia un’insurrezione rinvigorita, sia una violenza settaria che si sta diffondendo come un cancro. Durante la ricorrenza dello scorso weekend, l’ex primo ministro iracheno Allawi, data la quotidiana conta dei morti, ha dichiarato lo stato di guerra civile. I costi sin qui sostenuti per giungere a questo risultato sono sconcertanti: 2.300 americani morti; migliaia gravemente feriti, fisicamente e mentalmente; decine di migliaia di iracheni morti e feriti nel mezzo della distruzione di massa; e centinaia di miliardi di dollari sprecati malamente per raggiungere obiettivi nazionali. Nel frattempo il presidente Bush ed i suoi apologeti, rifiutando ostinatamente le proprie responsabilità e ignorando i fatti sul campo, riciclano vecchi clichés e condannano i critici, oramai la netta maggioranza degli americani, definendoli disfattisti o addirittura traditori.
In una sconclusionata conferenza stampa di questa settimana, Bush ha ammesso che i futuri presidenti dovranno occuparsi della questione relativa ai livelli delle forze americane nell’occupazione, facendo intendere che il pasticcio da lui creato continuerà almeno fino al 2009. Ciò può voler dire solamente più anti-americanismo all’estero, soprattutto nel mondo musulmano, dove il caso di Abu Ghraib e le politiche di detenzione illegale e di tortura sono destinati a riverberarsi indefinitamente.
Quali sono le implicazioni politiche? Solo una piccola minoranza di cittadini qui è scesa per le strade lo scorso weekend. La guerra è un evento doloroso, ma comunque distante, per la maggior parte della gente, che non conosce nessuno direttamente coinvolto nei combattimenti. Non è un tema cruciale delle conversazioni di tutti i giorni, viene compiuto qualsiasi sforzo per nascondere i costi e le vittime dell’occupazione, e non c’è alcuna coscrizione. Ma la stanchezza della guerra è palpabile. Il desiderio di avere nuove priorità, una visione meno militarizzata della potenza americana nel mondo, la fine delle disastrose politiche nazionali ed internazionali della plutocrazia di Bush è ormai assai diffuso. Ancora una volta i democratici hanno l’opportunità di riprendersi almeno una camera del congresso nelle elezioni autunnali, se riusciranno a presentare un’alternativa forte e coerente, basata su un’uscita ordinata dall’Iraq e un ritorno ai principi costituzionali. Come ha scritto Vaclav Havel, “spetta soprattutto ai politici scegliere quali forze liberare e quali reprimere, se affidarsi a ciò c’è di buono o di cattivo in ogni cittadino”. Sin dall’11 settembre i nostri leader hanno capitalizzato sugli istinti peggiori e più limitati degli americani -egoismo, cinismo, tribalismo e, soprattutto, paura. Forse è giunto il momento di ricorrere a qualcosa di più ampio, di più vicino alla realtà, di più umile e coraggioso. Nel frattempo la guerra avanza inesorabilmente.
Gregory Sumner
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