Perché parliamo tanto di ebrei ce lo chiedono in molti. Ma come sospettando che tanta insistenza da parte nostra celi qualcosa di tenebroso. Quasi fossimo lontani discendenti di quei marrani spagnoli che, obbligati a convertirsi, conti­nuavano poi in segreto a celebrare il sabato. Qualcuno ha adombrato che questo "avvicinarsi” a Israele via Auschwitz fosse un eccesso dell’ormai imperante zelo da "sinistra in crisi”. Un altro ha tagliato corto: "gli ebrei ora vanno”.
Ma è strano che sul finire del secolo si tenti di discutere di un avvenimento che ha segnato la storia dell’umanità, avvenuto sotto gli occhi dei nostri genitori, mentre abbiamo ancora la possibilità di parlarne con gli ultimi testimoni? E poi non basta aprire un giornale in questi giorni? E siamo veramente sicuri che scoprire una lapide ai martiri ebrei di Forlì e prima, casomai, parlarne nelle scuole, sia meno importante, e senza scherzare affatto, di una qualsiasi opera pubblica, che fosse pure la costruzione di un teatro da miliardi e miliardi? E importante non già da un punto di vista morale, che non ci sarebbe neanche da stare a discutere, ma proprio da quello della futura qualità della convivenza, e quindi della vita, di una città. In questo numero intervistiamo due signori molto affabili, che abitano a pochi chilome­tri da Forlì, che annoverano parecchi familiari perduti ad Auschwitz. Ci hanno spiegato di quante cose minute si nutra una persecuzione e per quante, altrettanto piccole, si possa aver salva la vita. Ebbene a noi sembra strano che questi signori non siano mai stati invitati in una scuola superiore a parlare ai ragazzi, a tenere una grande lezione di storia.
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Il Rabbino dice che chiedersi cosa avremmo fatto in situazioni simili è la domanda principale. Ce la facciamo da tempo. Abbiamo passato serate a discutere cosa avremmo fatto sentendo il frastuono delle vetrine in pezzi del nego­ziante di sotto. E il giorno dopo? E quando il negozio veniva riaperto da un altro esercente? Come ci ha spiegato il nostro amico che insegna a Princeton massime come "non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te” e "la mia libertà finisce eccetera eccetera” funzionano solo se tutti le rispettano. Che non basta non esser prepo­tenti, ma bisogna impedire la prepotenza degli altri. E che per questo possano o debbano bastare i carabinieri non è solo un problema tecnico. Sempre a Princeton, a filosofia politica, discutono in aula cosa significhi politicamente quel che si farebbe in metrò imbattendosi in uno stupro di gruppo in atto. Quando ce lo eravamo chiesto noi, uno ammise che forse avrebbe fatto finta di non vedere, un altro che avrebbe fatto di tutto per intervenire per sal­vare se non altro il rispetto di sé, ma un terzo si lasciò sfuggire che si sarebbe messo a correre per andare a chiamare i carabinieri, e a correre forte... Non parliamo poi di quando una maggioranza decide democraticamente di diventare pre­potente, coi carabinieri a tenere l’ordine nuovo. In Germania ora c’è chi vuol far passare come una specie di resistenza antinazista la non-collaborazione di tanti tedeschi. Tipo che molti giovani continuavano ad ascoltare jazz. Che è vero, peccato che non sia stato sufficiente a non far portar via il compagno di studi. E allora? Scendere mentre stavano di­struggendo le vetrine poteva voler dire il lager, forse la morte sul posto, e probabilmente senza ottenere alcun risul­tato visibile.
Eppure il problema resta. Forse ci siamo ormai abituati ad una libertà slacciata da responsabilità non più richieste ad alcuno, forse non è un caso che si parli quasi solo di "diritti” mentre il sopruso imperversa e che parole come onore e disonore siano in totale disuso. Che in nome del cosiddetto "valore della vita” il grido più nobile dell’uomo che si alza in piedi sia risuonato capovolto: "meglio schiavi che morti”. Cos’è allora libertà? Sartre disse che il massimo di libertà ci fu sotto l’occupazione nazista quando per un francese de­cidere se salutare o no una persona conosciuta poteva essere questione di vita o di morte. Pensiamo che siano que­stioni lontane anni luce?
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Abbiamo giovani amici tedeschi. E abbiamo sempre discusso, anche con accanimento, del carattere dei tedeschi, della loro responsabilità collettiva, che avevano rimosso, che non avevano pagato abbastanza. Quasi a incitarli a scavare nella storia dei loro genitori, ad indagare sull’origine dei gioielli di famiglia, sui passaggi di proprietà della casa in cui erano cresciuti. E la più timida perplessità avvalorava il peggior sospetto. Ora ci risentiamo stonati. Accusare gli altri è sempre attraente, ma ancor più se dà occasione per squadernare delle carte in regola, con su scritto, nel caso in que­stione, "brava gente, non razzista, non antisemita”. Ma non è forse vero che in tutta Europa, nel dopoguerra, la de­monizzazione del tedesco servì addirittura a ripulirle, le carte di tutti? Basta andare a vedersi cosa amavano fare i pa­trioti lituani nelle pubbliche piazze. Si portavano anche i figli piccoli, che non dovrebbero aver dimenticato lo spetta­colo. (Leggere se interessa "Bei Tempi”, editrice La Giuntina”).
Allora scoprire l’eccidio di via Seganti, scoprire che in via Seganti c’erano italiani, che gli ebrei venivano anche arre­stati da italiani, spesso su denuncia di italiani, che a Forlì funzionò un piccolo campo di concentramento, non è stato cosa da poco. Ma più grave ancora è stato scoprire che noi non lo sapevamo, scoprire che di questo eccidio Forlì non porta memoria. Abbiamo chiesto ai nostri genitori, abbiamo chiesto in giro. Nessuno ne sapeva nulla. Sette donne fucilate dovrebbero "fare notizia”, ma per loro non c’è neanche una lapide in via Seganti. Al quartiere Resistenza, a meno che non ci sia sfuggita, non c’è via intitolata agli ebrei trucidati in quello che dopo le Fosse Ardeatine e il Lago Maggiore, è il terzo eccidio in Italia per numero di ebrei caduti. Una semplice dimenticanza? Ma appunto. Inutile tro­vare scuse. Abbiamo anche qui la riprova che lo sterminio degli ebrei in Europa è stato considerato una "cosa a parte”, un fatto che riguardava loro e che più di tanto non faceva neanche notizia. Allora aveva ragione Hitler pensando che per gli ebrei si sarebbero sparse poche lacrime? Ed è quella indifferenza che fa impressione. Se poi si ha il sospetto che da allora, in fatto di indifferenza, si siano fatti passi da gigante...
Da tutto ciò la decisione, un po’ anomala per noi, di "impegnarci” anche al di là del giornale.
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Un conoscente, anche intelligente, per niente razzista, parlando della giornata che stiamo organizzando è scattato: "gli ebrei? Non mi interessano!”. Di lì a un minuto, però, erano state dette le parole "Rockfeller” e "rabighino” e le frasi "sparano sui palestinesi” e "puzzano”. Quest’ultima cosa perché, in metrò a New York in pieno agosto, c’era un orto­dosso con soprabito e colbacco di pelo. A parte che "perché puzzano” è da sempre una delle frasi preferite da ogni razza di razzista; a parte che per avere un’idea di quanto sia relativo il concetto di "puzzo” basta chiedere a un giallo, che per razza non suda, cosa significhi per lui star di fianco ad un bianco qualsiasi, sia pur irrorato di Chanel. Ma ammesso anche che al nostro amico l’odore del signore "ortodosso” risultasse sgradevole, sarebbe il caso che prima di riempirci la bocca di indignazione antirazzista ogni volta che succede un fattaccio, ragionassimo sullo scenario che ci piacerebbe vedere entrando in un qualsiasi vagone di metropolitana occidentale. Non è un problema da poco. Perché se poi la co­munità che preferiamo è una comunità di eguali, con lo stesso odore, lo stesso cibo, gli stessi abiti, gli stessi dei, al­lora meglio dirselo chiaramente, ma avendo anche l’onestà di riconoscere che Hitler un problema in Europa ce l’ha ri­solto. Se altrimenti sia inevitabile una comunità in cui ognuno è diverso dagli altri, dove, con tutti i rischi di perdita delle identità, si diffondano i matrimoni misti, oppure ancora, se sia possibile una "comunità di comunità”, malgrado tutte le tensioni che si potranno creare, sono i problemi che stanno attanagliando gran parte del mondo.
Ma non era poi concesso che quel signore "ortodosso” puzzasse. Perché spesso decidiamo "prima”. Perché un colbacco di pelo in agosto puzza agli occhi già a venti metri di distanza. Niente di grave, ma se poi, senza sapere nulla della storia dell’ebraismo americano, decidiamo che gli ebrei americani sono tutti Rockfeller e se, senza mai aver cono­sciuto un ebreo, decidiamo che sono tutti "rabighini”, in questo peraltro confortati dal vocabolario dialettale, affermare che in questo "decidere prima” ci sia un piccolissimo, microscopico "prodromo di pogrom” sarebbe dire troppo? Forse sì, ma un problema c’è. Ovviamente il conoscente ha rigettato con sdegno l’accusa, considerata infamante, di antisemitismo.
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Alcuni di noi da sempre parteggiano con i palestinesi. E nel passato è capitato che qualcuno si sia messo a misurare ogni cosa che faceva Israele col bilancino, anzi, con la pesa usata per giudicare la Germania di Hitler. Ora al mondo, e proprio dopo Auschwitz, non si può escludere più nulla, neanche uno sterminio di palestinesi, ma neanche, visti i rapporti di forza nella regione, un nuovo sterminio di ebrei. E che a sinistra questa possibilità quasi macroscopica non sia mai stata presa in considerazione fa pensare. Non all’antisemitismo casomai, ma a un antiamericanismo talmente cieco da far dimenticare Auschwitz. Poi se si vuol giudicare, bisogna, essere esatti. L’abuso di parole che ad alcuni non costa nulla ad altri fa male. Allora Sabra e Chatila, che resta una delle pagine più nere del dopoguerra, andrebbe comunque paragonata a Marzabotto. Così come le stragi di Tall el Zatar e del Settembre Nero commesse da siriani e giordani. Mai ad Auschwitz.
Ma la cosa che conta è chiedersi chi giudica chi. Allora un certo accanimento, l’assoluto disinteresse a capire anche cos’è Israele, la sua storia e la sua psicologia, un certo compiacimento, quasi un’impazienza nel voler dare dei nazisti agli israeliani, di dimostrare che le vittime non erano meglio dei carnefici, tutto questo oggi suona un po’ sinistro. Meditiamo sul vivo compiacimento che provava una SS ancora sicura di sé, tronfia e ben saziata, dedita casomai a qu­alche buon commercio di ricavati da selezioni, di fronte alla vittima che in lotta per la sopravvivenza si abbassava a commettere atti disumani.
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Il signor Matatia al sindaco di quella che la sua famiglia un tempo considerò la propria comunità non chiede molto. Che venga tenuta pulita e leggibile la targa che sul ponte di Faenza ricorda chi lo costruì: la Brigata Ebraica che com­battè a fianco degli alleati per liberare la Romagna. Ma non pare sia stato ancora accontentato. Ma ci ha anche raccon­tato la sua amarezza per il fatto che i giovani, anche ebrei, non si interessino più di tanto a quello che successe allora.
Al signor Matatia periodicamente imbrattano le vetrine del negozio. E l’ultima volta, per la guerra del Golfo, insieme alle scritte antiebraiche e alle minacce di morte, c’era anche un "cane israeliano”. Ovviamente in nome dei palestinesi. E’ stato a quel punto del racconto che il signor Matatia ha aggiunto con una punta di orgoglio che quel "cane israe­liano” in fondo non gli aveva dato fastidio. E al momento di accomiatarsi, all’intervistatrice ha regalato una botti­glietta con tut-ti i colori delle terre di Israele, una di quelle cose che incantano i bambini. Allora l’intervistatore, da sempre filopalestinese, si è fatto piccolo piccolo e si è sentito irrazionalmente corresponsabile di qualcosa.
E sulla via del ritorno ha pensato a come sia facile proclamare solidarietà ad uno dei tanti popoli oppressi che ci sono al mondo quando non si rischia nulla. Meno che mai di dover leggere sui muri della propria città minacce di morte al proprio fi­glio. E che certo non lo dimenticherà, il moto d’orgoglio dell’anziano sopravvissuto, del "cane israeliano” che era un bambino quando perse diciotto parenti...