Ho dato voce ai miei ricordi dopo circa cinquanta anni di silenzio (anche interiore) a metà degli anni novanta, in seguito al processo Priebke. Sandro Portelli, autore dell’importante: “L’ordine è stato eseguito”, ha inserito il racconto mio e quello di mio fratello in un mosaico di testimonianze orali sul massacro delle Fosse Ardeatine. Tutti i familiari delle vittime descrivono le stesse difficoltà di vita negli anni successivi al 1944; lo stesso senso di offesa per l’ insensatezza degli scempi; di mutilazione per lutti che non si sono mai potuti sciogliere in teneri pianti come nei funerali e cimiteri normali.
I risarcimenti di una vita che poi ha avuto le sue normalità e le sue gioie sono serviti finalmente a farmi parlare: con una generazione di nipoti ormai, come con quella dei figli invece era stato troppo difficile fare. Credevo che contenuti e forma di quei ricordi fossero ormai fossilizzati: ma mi sono accorta che la distanza guadagnata col tempo può avere il potere di rendere meno irrazionali i sentimenti, più oggettivi gli sguardi al fine di immaginare un mondo senza guerra. Certamente, spogliati di tutti i dettagli particolari dell’epoca, molte delle situazioni che ho evocato hanno lasciato un segno preciso (e confortante): il fastidio per ogni fissazione identitaria, per ogni forma di religione ritualistica o tribale; e di converso, la convinzione che il diritto di essere rispettati non sia restringibile. Intanto correvano ormai i tempi della prima guerra del Golfo, seguiti dal ciclo delle guerre nei Balcani, e poi di quelle che sappiamo, in Africa, in Medio Oriente, in Afghanistan e di nuovo nel Golfo; nessuna delle quali in via di stabile soluzione. Ora diversi dettagli emergono più numerosi e con sempre maggior forza: soprattutto quelli che riguardano i bombardamenti.
Chi racconta esperienze di guerra a chi non ne ha avute, si trova in una posizione di facile credibilità: si dà per scontato che la memoria, per soggettiva e personalissima che sia, non menta. Intatto, certo, è il mio ricordo della paura dei bombardamenti: ho avuto modo di verificare che tutti quelli che l’hanno vissuta, non solo io, sono stati colti dallo stesso automatico terrore, anche svariati anni dopo e in tempo di pace, se sorpresi dal rombo del motore di aerei in transito.
In questi ultimi anni, proprio ai bombardamenti come li ho conosciuti ho pensato sempre più spesso. Nella preparazione del fascicolo “Guerra” della rivista “Parole Chiave”, il comitato redazionale, di cui faccio parte, si è trovato diviso. Contro le vedute di alcuni che contestavano la pratica della guerra totale (con attacchi estesi cioè alla popolazione civile), altri, in nome delle “guerre giuste” come quella che ha annientato il nazismo, hanno sostenuto invece che in casi speciali questa pratica debba essere accettata; perciò invece di un editoriale è stato pubblicato un sunto della nostra discussione.
La mia convinzione è che ora, particolarmente se si considera quanto si sia alterato il rapporto tra morti militari e morti civili nelle guerre del ventesimo secolo (invece degli otto militari per un civile nella Prima Guerra Mondiale, un militare per ogni otto civili negli ultimi anni; e il bilancio del dopo-Afghanistan e Irak nel nuovo secolo minaccia di essere ancora più fosco), il ricorso a una guerra totale da parte di potenze dotate di enormi strumenti di distruzione sia il vero problema.
Via via che questa convinzione si rafforzava, mi sono venuti in mente altri episodi dei bombardamenti alleati, e non nazisti, mai cancellati ma abitualmente esterni ai consolidati scenari dei miei ricordi.
L’autenticità della memoria resta confermata, ma essa diventa materia di un rifiuto della violenza in generale, riferito a ragionamenti costruiti lungo il tempo di vita successivo. In questa ottica altri episodi brutali, relativi anche alla condotta degli Alleati nella seconda guerra mondiale, emergono: il lancio di finte penne stilografiche esplosive che causarono mutilazioni ai bambini che le raccoglievano (noi ne eravamo al corrente); il fatto che l’otto settembre 1943 sia evocato a Frascati come una data saliente dell’intera guerra, perché….a armistizio avvenuto, per colpire un comando tedesco lì collocato, fu effettuato un massiccio bombardamento nel quale morì un terzo della popolazione; oppure, gli stupri di massa da parte delle truppe marocchine di un esercito… alleato.
Alle stesse conclusioni si può essere condotti da un diverso modo di associare gli stessi ricordi. Una volta (quando vivevamo nascosti nell’appartamento del quartiere Flaminio) andammo a vedere le macerie di un bombardamento recente, allo scopo di conoscere i nomi dei morti - se ce ne erano stati - per poterli poi utilizzare per i documenti falsi. Strano era il modo in cui le bombe avevano tagliato in due un certo edificio; metà era crollata completamente, l’altra metà era rimasta perfettamente in piedi. Lo spartiacque era al centro delle cucine: se ne potevano vedere le porte coi vetri ancora sani; in una di quelle mezze stanze era rimasto, intatto. un tavolo con una sedia e alcuni oggetti appoggiati sopra. Non credo di aver provato particolari emozioni alla vista di quelle macerie: quella ispezione era finalizzata a una ricerca di sopravvivenza come tante altre. Ora l’immagine fredda di quel mozzicone di casa si associa a un ricordo, invece, pauroso: la bomba esplosa poco tempo dopo, vicinissimo al convento delle suore canadesi sulla collina di Monteverde dove ormai abitavamo. Scendevo le scale per raggiungere il rifugio in cantina, e mi trovavo ancora all’altezza del primo piano quando un boato assoluto mi fece fermare. Immediatamente dopo, in mezzo a un mucchio di vetri infranti, a causa di un violentissimo spostamento d’aria (o della paura, chissà) tremai come per una scarica elettrica: fu la più soverchiante paura fisica che possa mai definire.
Ora il rievocato terrore per l’esplosione si salda al ricordo delle due metà (la sparita e la rimasta) di quella cucina del quartiere San Lorenzo: nell’una o nell’altra della quale, con diverso esito, sarei o sarebbe chiunque altro a caso potuto capitare -proprio come recitava la canzone di Phil Ochs cantata da Joan Baez (There but for fortune/go you or I) “vai a finire tu lì, o vado a finirci io/solo per un capriccio della fortuna”.
Le incursioni aeree delle guerre totali guardano al campo nemico con gli occhi della bomba: che mira indifferentemente e intenzionalmente sia a postazioni militari che a impianti e popolazioni civili. Il percorso delle bombe già da solo dimostra che nessuna guerra totale potrà mai essere una guerra giusta.
Il nazismo storico corrisponde ancora alla definizione che ne fu data da Franz Neumann: un Behemoth, mostro senza capo né coda, senza intenzioni e senza obbiettivi, capace di funzionare e crescere magari in perfetta efficienza, ma per distruggere i nemici che esso via via si inventa. I conflitti più recenti indicano che il Behemoth del nostro tempo è la guerra stessa; e che molti, indipendenti o subalterni Behemoth operano al suo interno: il potere politico degli apparati militari-industriali; le tecnologie belliche moderne capaci di moltiplicare, nel tempo, la violenza degli attacchi; i fattori interni e esterni di esasperazione dei conflitti interetnici.
Le memorie personali non sono indispensabili per argomentare che non si devono uccidere gli innocenti, e che i conflitti si possono dirimere senza guerra; che, se ci si riesce, in realtà vincono tutte e due le parti. Esse possono servire, tuttavia, per ragionare coi diretti protagonisti di un conflitto in corso, perché, essendo riferite a pezzi di microstoria, possono meglio innestarsi nella sensibilità e nell’esperienza di chi le ascolta. Se l’innesto riesce, diventa evidente non solo la pericolosità (conclamata) dei sopraffattori, ma anche quella (potenziale) rappresentata di per sé dall’uso della forza.
Le due guerre mondiali hanno prodotto un imbarbarimento generale, che la sconfitta del nazismo non ha cancellato. Le vittime ricevono una carica di violenza che possono in determinate circostanze restituire, perfino aggravata e comunque velenosa - se il loro dolore indelebile si converte non in sforzo di fondare legalità e giustizia, ma in cemento nazionalista, identitario. Le vendette collettive, da nazione a nazione, possono trasmettere i metodi delle guerre totali anche alle giuste riscosse degli innocenti.
Assolto il dovere di ristabilire la verità sui torti subiti, i ricordi costringono chi conviene sul rifiuto della violenza a immaginarne le possibili alternative nel futuro: è l’unica strada che consente di averne uno.
Ester Fano
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Ester Fano ha insegnato Storia Economica all’Università “La Sapienza” di Roma. Fa parte del direttivo di Parolechiave e del Comitato Scientifico della Fondazione Basso. E’ attiva nella Rete Ebrei contro l’Occupazione dei Territori in Palestina e in “Actio...
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