31 maggio 2007
“C’è solo un nome, quasi sempre sbagliato. Niente di lui, niente di noi. A me basterebbe che quelle poche volte che mio padre è citato, quasi sempre in relazione alla famosa foto, non lo si facesse sbagliando nome e cognome: si chiamava Antonio e non Antonino, ci chiamiamo Custra e non Custrà. Non ho mai capito chi gli abbia cambiato il nome e chi abbia aggiunto quell’accento, ma da trent’anni lo vedo storpiato ovunque.” Faccio ammenda anch’io. Il piglio con cui parla mi colpisce. E’ cambiata molto: ha i capelli biondi e non più neri, è molto magra e al posto degli anfibi ha stivali chiari.
“Mia madre aveva ventitré anni, si erano sposati nel settembre del 1976 e vivevano da pochi mesi a Milano. Lei non riusciva ad ambientarsi, passava la maggior parte della giornata a casa a cucinare e al telefono con Napoli. Io ero stata concepita durante il viaggio di nozze in Germania, dove viveva una zia. Mio padre era felice, lui era il settimo figlio, il primo maschio dopo sei sorelle, e voleva un sacco di bambini. Non fece il poliziotto per sfuggire alla disoccupazione come quasi tutti allora, era diplomato e per un paio d’anni aveva anche studiato Ingegneria. Gli offrirono di stare in ufficio, ma gli piaceva la strada. Morì il 15 maggio dopo un giorno di coma e io sono nata il 1 luglio”.
Antonia parla veloce, diretta, senza cercare di attutire l’impatto delle cose che dice, non c’è nulla che smussi gli spigoli del suo racconto.
“Quel giorno è morto mio padre ed è morta mia madre. Lei è ancora con me, ma da trent’anni è un fantasma, è assente, ha paura di tutto: non esce, non si compra nulla, mai un viaggio, mai un ristorante. Tornò subito a Napoli con la salma di papà. Andò a vivere a San Giorgio a Cremano con sua madre. Da allora siamo noi tre: io, lei e la nonna. Per anni la nonna si è occupata di tutto, poi si è ammalata ed è toccato a me: sono l’uomo di casa, faccio la spesa, compro i vestiti, pago i conti. A ventun anni ho cercato un po’ di indipendenza, un lavoro che mi permettesse di mettere la testa fuori.
Ero iscritta al collocamento nelle categorie protette come figlia di una vittima del terrorismo. Mi chiamano al comune di Napoli per un posto, c’è da sostenere una prova. Stavo studiando sociologia e avevo fatto il liceo classico, ero contenta e curiosa: si sono ricordati di me, cosa mi faranno fare? Arrivo a palazzo San Giacomo per il colloquio, mi accompagnano in un atrio e mi fanno accomodare lì. Resto colpita dalla sporcizia: immondizia sparsa per terra, sacchi della spazzatura negli angoli, una sala d’attesa veramente terribile. Poi arriva un impiegato del comune con una scopa, me la allunga e mi dice: ‘Fammi vedere se sei capace di spazzare, poi ci sono da alzare quei sacchi, che così vediamo se hai abbastanza forza’. Resto interdetta, penso alla mia maturità classica e lo guardo con aria interrogativa; lui coglie al volo e mi dice: ‘II lavoro è di spazzina, abbiamo deciso di aprire alle donne’. Ci rimasi malissimo, questo era quello che lo Stato aveva da offrirmi, però non fiatai, presi la scopa e ottenni il lavoro. Così sono stata la prima spazzina donna di Napoli, l’ho fatto per due anni. Con me entrò un altro gruppo di ragazze, la città non era abituata e le umiliazioni non mancarono, io spazzavo in centro, in piazza del Plebiscito, e i ragazzi mi sfottevano, mi seguivano, fischiavano, ‘ma come scopi bene...’. Sono orgogliosa di averlo fatto, non lo nascondo, anzi dico sempre: ‘Ho iniziato come spazzina’. Alla fine mi conoscevano tutti, ero meticolosa, pulivo come fossi a casa e mi personalizzavo la tuta blu: a Natale mettevo gli accessori rossi e appendevo le palline sul carrello e intorno al secchio. Poi ho fatto un concorso al ministero dell’interno e ho cominciato a lavorare in un ufficio della Polizia ferroviaria. Il primo a occuparsi di me fu Gianni De Gennaro, il capo della Polizia, proprio la mattina della medaglia. Mi chiese se mi trovavo bene: ‘No, sto in un ufficio scuro, tetro, che si occupa di malattie, se devo essere onesta mi sento soffocare’. Mi sorrise e basta, ma sei mesi dopo mi trasferirono alla direzione interregionale del Viminale e so che lo devo a lui.” …
A parlare è Antonia Custra, figlia di Antonio Custra, poliziotto, colpito per strada il 14 maggio 1977 da manifestanti che aprirono il fuoco contro le forze dell’ordine. Il brano è tratto dal libro di Mario Calabresi Spingendo la notte più in là, storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Mondadori 2007. Un bel libro. Lettura obbligatoria per chi negli anni Settanta teorizzò o praticò la lotta armata e l’omicidio politico al fine della rivoluzione comunista. E per chi, come il sottoscritto, il pomeriggio del 17 maggio 1972 si trovava all’uscita di una grande fabbrica a un migliaio di chilometri da Milano con un tazebao in cui dava notizia agli operai che un atto di giustizia proletaria era stato compiuto, venendosene via un po’ compiaciuto che qualche operaio, su trentamila circa, chiedendo frettolosamente chi fosse stato ucciso, alla risposta: “Un commissario”, avesse detto: “Ah, bene”.
(Gianni Saporetti)

6 giugno 2007
Quella che segue è la lista dei divieti che riguardano i palestinesi, secondo uno studio dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha).
Divieti permanenti
I palestinesi della striscia di Gaza non possono vivere in Cisgiordania; i palestinesi non possono entrare a Gerusalemme Est; i palestinesi della Cisgiordania non possono entrare a Gaza attraverso il checkpoint di Erez; non possono recarsi nella valle del Giordano; non possono recarsi nei villaggi, nelle terre, nelle città e nei dintorni dell’area (seam line) situata tra il muro di separazione e la Linea Verde; non possono entrare nelle colonie (anche se le loro terre sono all’interno delle zone colonizzate); non possono entrare in auto a Nablus; i palestinesi residenti a Gerusalemme non possono andare nella zona A (le città palestinesi della Cisgiordania); i palestinesi della striscia di Gaza non possono entrare in Cisgiordania dal checkpoint di Allenby (frontiera giordana); non sono autorizzati a partire per l’estero dall’aeroporto Ben Gurion; i bambini di meno di 16 anni non hanno il diritto di lasciare Nablus senza un certificato di nascita (originale) e senza essere accompagnati dai loro genitori; chi possiede un permesso per entrare in Israele non può farlo attraverso gli stessi punti di controllo degli israeliani e dei turisti; i residenti di Gaza non possono stabilirsi in Cisgiordania; i residenti della Cisgiordania non hanno il diritto di stabilirsi nella valle del Giordano né nelle comunità della zona vicina alla Linea Verde; i palestinesi non sono autorizzati a trasportare merci tra i differenti checkpoint della Cisgiordania.
Concessioni della residenza
I residenti di alcune zone della Cisgiordania non possono viaggiare nel resto della Cisgiordania; le persone di una certa fascia d’età (essenzialmente gli uomini di 30, 35 o 40 anni secondo il livello d’allarme) non hanno il diritto di lasciare le zone dove abitano -in particolare Nablus e altre città del nord della Cisgiordania.
Checkpoint e barriere
A gennaio si contavano 75 checkpoint in Cisgiordania; c’è una media di 150 checkpoint mobili; ci sono 446 “ostacoli” situati tra le strade e i villaggi (cubi di cemento, muri di terra, 88 barriere di ferro) e 74 km di barriere attorno alle strade principali; ci sono 83 porte in ferro lungo il muro di separazione, che separano i proprietari dalle loro terre. Soltanto 25 di esse vengono aperte di tanto in tanto.
(Le Monde)

6 giugno 2007
Qualora l’anomalia evidenziata, così come altre dello stesso genere, sarà riscontrata anche nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2006, la posizione sarà sicuramente inserita in apposite liste dalle quali gli Uffici dell’Amministrazione finanziaria selezioneranno i contribuenti da sottoporre a controllo fiscale.
Finisce così una lettera di contestazione a un lavoratore autonomo da parte del responsabile degli studi di settore. C’è la benevolenza del “perdono” per l’anno in corso, la minaccia di quel “sicuramente” per l’anno a venire, poi quelle “apposite liste” che non può non suonare vagamente sinistro (“badi, finirà in una lista”), il verbo selezionare, genericamente arbitrario, non “sorteggiare”… Quattro righe perfette.

7 giugno 2007
Questione settentrionale. Mettiamo che ci fosse un patto, non scritto s’intende, basato su un “lasciar fare” reciproco, del tipo “tu non mi fai le strade e io pago la metà delle tasse dovute”. All’improvviso questo viene rotto unilateralmente e uno si trova a passar le sue due ore quotidiane sul passante di Mestre pensando che dovrà, ben che gli vada, pagare molto di più e poi, visto che ha tempo, pensa allo stipendio siciliano di Cuffaro o a quello degli insegnanti di Bolzano…

7 giugno 2007
Asher Salah ci scrive da Gerusalemme.
Ho già avuto l’occasione di esprimere la mia opinione riguardo al boicottaggio delle università israeliane, sulle pagine del mensile Una Città, n.110 (2003), in una lettera aperta agli organizzatori di un convegno in Francia che mi chiedevano di sostenere questa iniziativa in quanto attivo in vari movimenti della sinistra israeliana. Se riprendo la parola adesso è perché non avrei mai creduto che una simile proposta avrebbe continuato a farsi strada nell’opinione pubblica e in seno al corpo insegnante delle maggiori università europee, arrivando alla recentissima decisione, votata il 31 maggio scorso, dell’Ucu, sigla dell’University and College Union, il principale sindacato di professori e di lettori universitari della Gran Bretagna con 67.000 aderenti, di approvare ufficialmente il boicottaggio delle università israeliane. Il significato di questa decisione è chiaramente formulato nel suo manifesto programmatico: bloccare ogni tipo di scambio e di cooperazione con istituti universitari israeliani, impedire a studiosi israeliani di partecipare a convegni, seminari e conferenze internazionali, estrometterli dai comitati editoriali di pubblicazioni scientifiche, non accettarne articoli e contributi e infine rifiutare di scrivere su riviste o accettare inviti da parte di istituzioni accademiche israeliane. Se allora pensavo bastasse manifestare il mio dissenso nei confronti di un’iniziativa da me ritenuta, a torto, peregrina e marginale, oggi sono costretto a riconoscere che si tratta di un problema di ben più ampia portata di cui occorre urgentemente mostrare i rischi e gli errori. Dietro la parvenza dell’indignazione morale, in realtà è l’esistenza stessa dello Stato d’Israele ad essere contestata col processo alla sua società civile e la condanna senza appello delle istituzioni accademiche che ne riflettono le diversità e le contraddizioni. Sarebbe facile, ma probabilmente sbagliato, tacciare questa decisione di antisemitismo, pur sorgendo spontanea l’associazione con gli infami decreti di espulsione di insegnanti ebrei da università europee in tempi non tanto lontani. Appartengo al novero di coloro che credono sia necessario distinguere tra la possibilità legittima di esprimere una posizione critica nei confronti della politica dei governi israeliani e il fenomeno dell’antisemitismo. Ciononostante è sempre più evidente quale sia il peso che forme di antisemitismo redivivo, più o meno camuffato, abbiano nel conclamato antisionismo di larghi settori dell’opinione pubblica internazionale. L’indignazione per le sofferenze del popolo palestinese sembrano spesso determinate più dall’antipatia per Israele che da una reale identificazione con la loro causa. Come spiegarsi infatti altrimenti la quasi totale indifferenza per il dramma dei palestinesi quando essi sono vittime dei governi libanesi, siriani, giordani o kuweitiani? Cosa pensare poi del silenzio, per non dire l’ignoranza, a proposito delle rivendicazioni nazionali dei curdi, dei tibetani e dei recenti genocidi dei ceceni e dei cristiani del Darfur? Ma anche a prescindere da questi interrogativi, l’opposizione assoluta a Israele se non altro condivide con l’antisemitismo tradizionale e con altre forme di odio, la stessa natura di passione irrazionale, lottando non tanto contro quello che fa un governo particolare ma per quello che esso rappresenta, per quello che è una nazione. Per questo è terribilmente limpida e rivelatrice la frase del delegato della prestigiosa London School of Economics, Mike Cushman, che per giustificare il boicottaggio delle università israeliane ha detto: “Universities are to Israel what the Springboks (NdA: le squadre sportive nazionali sudafricane) were to South Africa - a symbol of their national identity”....
La lettera integrale è leggibile sul sito di Una Città.
(www.unacitta.it)

8 giugno 2007
Lo Stato italiano diffida della parola del cittadino.
Non sarebbe meglio, come avviene in altri paesi, rispettare la parola del cittadino e sanzionare poi duramente il venir meno alla parola data o l’aver detto il falso? Un nostro abbonato trasferitosi in Italia dopo aver passato lunghi anni a Londra ci racconta che, fermato a un posto di blocco della polizia, consegnò la patente inglese priva di foto. Il poliziotto non si dava pace: “Ma a me chi me lo dice che lei è lei”. “Io! Chi glielo deve dire?”.

8 giugno 2007
Il 31 maggio è stata la Giornata mondiale senza tabacco. Nel 2003 la prevalenza di fumatori in Italia era del 25,1%, un numero in diminuzione continua dagli anni Settanta (nel 1980 i fumatori in Italia erano ancora il 36% della popolazione). La diminuzione osservata è totalmente ascrivibile alla riduzione del numero di fumatori uomini (dal 55,1% al 30,7%); tra le donne, invece, la percentuale è rimasta in sostanza immutata, attorno al 20%, addirittura oggi in leggero aumento rispetto al 2000. Negli anni sono aumentate le differenze sociali fra fumatori e non fumatori. Secondo l’Oms queste semplici differenze sono origine di metà delle diseguaglianze sociali nella salute riscontrate nelle società europee.
In Italia nel 2002 il fumo ha causato il 4,5 % del totale dei ricoveri (il 7,6% per gli uomini) e un numero di vittime pari a circa 70.000, con una diminuzione dell’aspettativa di vita dei fumatori di circa 10 anni. Un fumatore ha 30 volte più possibilità di un non fumatore di sviluppare determinate patologie (cardiovascolari, oncologiche, pneumologiche) e una persona che inizi a fumare a 15 anni ha una probabilità tre volte superiore di ammalarsi di tumore rispetto a un individuo che inizi a 20 anni.
Alcuni studi italiani hanno quantificato i costi del fumo di tabacco limitatamente alle spese di ricovero e alle ore di lavoro perse: i costi di ospedalizzazione eccedono del 40% quelli dei non fumatori, per una spesa in eccesso di circa 5 miliardi di euro l’anno. I costi totali del fumo di tabacco in Italia sono pari a circa 15 miliardi di euro l’anno, di gran lunga superiori ai circa 10 miliardi di euro ricavati dall’erario per la vendita di tabacco.
Numerosi studi dimostrano che coltivazione e consumo di tabacco fanno aumentare la povertà e diminuire le risorse nazionali, determinando ogni anno in tutto il mondo 5 milioni di morti prevenibili. Il principale metodo suggerito di lotta al fumo, pur nella libertà delle scelte individuali, è la diffusione di informazioni corrette sui suoi effetti dannosi.
(Commissione Regionale Antitabacco del Piemonte, Quaderno N. 3, Maggio 2007, Organizzazione Mondiale della Sanità, Convenzione quadro sul controllo del tabacco, Ginevra, 2003).

9 giugno 2007
All’indomani della visita di Benedetto XVI, che aveva incitato all’astinenza i 30.000 giovani riuniti a San Paolo, il presidente brasiliano Lula ha lanciato un nuovo programma per aiutare le famiglie brasiliane a evitare gravidanze non programmate o desiderate. L’obiettivo è democratizzare l’accesso ai metodi contraccettivi.
In Brasile, il tasso di natalità è di 2,4 bambini per donna. Si tratta evidentemente di una media, che “nasconde” una realtà assai più drammatica. Secondo recenti statistiche, le famiglie che percepiscono meno di un euro al giorno hanno infatti più di 5 bambini e addirittura superano i 6 nel nord; mentre coloro che hanno un salario mensile maggiore di 740 euro hanno medie europee.
Il budget stanziato, 41 milioni di euro, permetterà di ridurre drasticamente il prezzo dei metodi contraccettivi. Il ministro della sanità, José Tamporao, ha annunciato che nelle farmacie popolari e affiliate pillole, iniezioni e preservativi verranno venduti con uno sconto del 90%. Le pillole e i preservativi sono già distribuiti gratuitamente nei consultori, ma lo scopo è andare incontro a un pubblico più vasto. Inoltre saranno incoraggiate le vasectomie. Tutti questi metodi saranno anche l’oggetto di una campagna di educazione nelle scuole, nei centri comunitari e nei media.
Tre settimane dopo la visita del papa, che si è scagliato contro l’aborto e la “cultura della morte”, Brasilia ha tenuto a sottolineare che questa iniziativa è in favore della vita, poiché le coppie avranno così l’opportunità di pianificare la loro famiglia.
Il ministro della sanità si è anche impegnato a iniziare una discussione sulla liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, su cui vorrebbe fare un referendum. Per il ministro e il presidente Lula, si tratta anche di un problema di sanità pubblica: un milione di aborti clandestini sarebbero praticati ogni anno in Brasile, al costo della vita di circa 4000 donne.
(Le Monde)

11 giugno 2007
Aderiamo alla campagna lanciata dall’amico Jeff Halper per ricostruire le case palestinesi demolite.
Le notizie dalla Cisgiordania sono tragiche. E’ in atto una vera e propria, seppur lenta e incruenta, ma non meno inesorabile, pulizia etnica. Gli insediamenti avanzano, lo stato palestinese non sarà più possibile. Le notizie vengono dalle Ong israeliane e filtrano dall’Onu. Ma chi vuole può sapere.
Alcuni filoisraeliani senza se e senza ma non riescono a trattenere la soddisfazione per la fine della prospettiva “due popoli due stati”. Tornano a parlare di Giordania (cioè? “Trasferimenti”? Approfittando, casomai, di un conflitto nell’area ben più grave dell’ultimo?). Poi, anche se nessuno lo dice apertamente, c’è la diaspora. “Andare, andare”. Infatti i palestinesi hanno cominciato ad andare: circa 200.000. Quelli che potevano, ceto medio quindi.
Altri filoisraeliani senza se e senza ma tacciono. Li ricordiamo dire che l’avanzare degli insediamenti, anche durante tutte le trattative di pace, era “tattica” per avere più carte da giocare a quel tavolo, e guardare storto chi diceva che in discussione non era l’esistenza di Israele ma del popolo palestinese, che qualcuno voleva, scientemente, riportare allo stato di popolazione e di profughi. Cosa dicono oggi? Niente. Parlano solo di Iran.
Di nuovo è solo l’esistenza di Israele a essere in discussione. I territori? “Disputa da cortile” qualcuno l’ha chiamata. Evidentemente l’amore acceca. Non vedere il legame fra cosa succede da decenni in quel cortile e il dilagare nel mondo del totalitarismo verde sarebbe come non vedere cosa volle dire il cortile vietnamita negli anni Sessanta per il dilagare fra i giovani di tutto il mondo del totalitarismo rosso.
Quel che è tragico è che ora Israele è in pericolo veramente. Quasi che il suo destino sia legato a quello dei palestinesi. Il lupo è arrivato e non è palestinese. Israele dopo aver perso l’onore nei territori ha perso la sua prima guerra. Qualche anno fa sembrava retorica da anime belle dire che uno stato palestinese democratico e laico sarebbe stata la miglior garanzia alla sicurezza di Israele. Oggi bisognerebbe convincere quei duecentomila palestinesi a tornare. Sarà mai possibile, dopo tanto impegno profuso a farli andare via?

16 giugno 2007
L’altro giorno ho presentato alla Sala Stampa della Camera alcuni libri ben fatti e interessanti prodotti dai volontari del carcere di Padova (che sono i meglio del settore) i quali da anni portano scolaresche intere dentro la galera a parlare coi detenuti, e viceversa, per superare i luoghi comuni ecc. ecc., e insomma, per farla breve, è uscito fuori dai numerosi interventi (molti di politici benpensanti) che “non si deve avere paura”, che le paure “sono ingigantite dalla stampa”, in pratica, ogni volta che uno ha paura di qualcosa si sta sbagliando, esagera, è isterico. La paura dei singoli individui come di intere comunità umane viene sistematicamente derisa. Una vecchietta che si barrica in casa con venti mandate perché ha paura dei ladri è una povera pazza. Il che ha provocato in me il desiderio di fare una difesa d’ufficio del sentimento della paura. Possibile che non serva a niente, che sia un organo inutile come le tonsille?
Penso che sarebbe un tema interessante per la rivista anche se non ho idea di chi potrebbe essere la persona o le persone adatte a trattarlo.
Psicologi? Sociologi? Boh.
(Edoardo Albinati)

17 giugno 2007
Ronald McIver è un detenuto del carcere di Butner, Carolina del Nord. Ha 63 anni e la barba bianca, un temperamento calmo e le maniere gentili. E’ stato condannato a 30 anni per traffico di droga, per cui è destinato a trascorrere lì il resto della vita. Tuttavia il signor McIver non era un trafficante nel senso classico: per anni ha trattato pazienti affetti da dolore cronico.
Al centro di terapia del dolore dove lavorava somministrava terapie ad ultrasuoni e antigravitazionali e poi prescriveva esercizi, ma soprattutto grosse dosi di farmaci oppiacei come l’OxyContin.
Era considerato un dottore del dolore particolarmente “aggressivo”. Il dolore può essere misurato solo dalla percezione dei pazienti, in una scala da zero a dieci, zero è l’assenza e dieci l’insopportabilità. In genere i medici cercano di ridurre il dolore a livello cinque. McIver puntava al due e quindi prescriveva di più e prima degli altri. Qualcuno dei suoi pazienti si è messo a vendere le pillole, qualcuno ne ha abusato; una sua paziente è morta.
La sua storia ha riaperto il dibattito sul dolore.
In base a un’indagine del 2005 negli Usa è emerso che una persona su cinque soffre di dolore cronico (intendendo per cronico un dolore che dura diversi mesi o più). Già nel 2003 The Journal of the American Medical Association aveva calcolato in più di 61 milioni di dollari l’anno il “costo” del dolore in termini di riduzione della produttività (senza considerare le spese per i farmaci).
Contrariamente al senso comune, il dolore uccide. Un corpo che soffre produce alti livelli di ormoni che causano una condizione di stress a cuore e polmoni; il dolore inoltre aumenta la probabilità di attacchi di cuore e ictus. Il dolore può anche assorbire una tale quota di energie da indebolire il sistema immunitario. Infine il dolore talvolta porta al suicidio. Ci sono molti modi di trattare il dolore; c’è chi risponde bene alla chirurgia, chi alla fisioterapia, agli ultrasuoni, all’agopuntura o agli antidolorifici. Ma per molta gente, gli oppiacei (come OxyContin, Dilaudid, Vicodin, Percocet, oxycodone, metadone o morfina) rappresentano l’unica chance di alzarsi dal letto. E tuttavia molti medici restano cauti nella prescrizione e i pazienti stessi tendono a pensare che il dolore sia preferibile alla dipendenza. E’ una falsa scelta: la dipendenza fisica non è equiparabile a quella psicologica e nella maggior parte dei casi è facilmente gestibile. Tuttavia lo stigma associato all’uso di queste droghe e i pregiudizi verso gli alti dosaggi fanno sì che ancora oggi il 50% dei pazienti con dolore cronico (tra cui i pazienti oncologici) non sia adeguatamente trattato. C’è infine la paura dei medici di essere denunciati per la prescrizione di dosaggi eccessivi. Si moltiplicano infatti i casi di pazienti che vendono i loro farmaci. Del resto è pressoché impossibile avere un test oggettivo sulla soglia del dolore. Il problema è individuare chi abusa o ne approfitta senza danneggiare chi ha veramente bisogno di questi medicinali. E i medici non sono formati a questo scopo.
McIver aveva una vera vocazione per fare il medico, aveva iniziato a occuparsi del dolore negli anni ‘80; era diventato osteopata. Era un medico particolare, vedeva pochi pazienti al giorno; la prima visita poteva durare anche diverse ore. Coloro che seguivano una terapia a base di oppiacei dovevano firmare una sorta di contratto e a ogni controllo portare con sé le confezioni dei farmaci, per contare le pillole. Come assistente, per risparmiare, aveva assunto la moglie. Anche tra i pazienti di McIver alcuni avevano comportamenti sospetti. D’altra parte a chi soffriva lui diceva sempre di non preoccuparsi delle dosi fino a che non emergevano effetti collaterali: “Non importa il numero dei milligrammi, ciò che conta è il livello di dolore nella scala da uno a dieci”. Howard Heit, specialista di dolore e di dipendenza, di Fairfax, ha toccato un nodo: se il 10% della popolazione ha problemi di dipendenza e il dolore è la causa più frequente per cui uno va dal medico, perché l’interfaccia tra dolore e dipendenza non fa parte del curriculum dei corsi di studio di medicina negli Usa?
Qui le vittime “collaterali” sono i pazienti affetti da dolore cronico che nel caso di McIver, nella stragrande maggioranza, non hanno abusato, né tantomeno hanno venduto i loro farmaci.
Ben, uno di questi, ricorda ancora l’imprudenza del dottor McIver: “Non preoccuparti, prendi la dose che ti serve per non sentire dolore, siano due o dieci pasticche. Se esageri torna indietro, usa un po’ di buon senso”. Su richiesta del medico, Ben teneva un diario: era arrivato ad assumere cinque pasticche da 80mg di OxyContin quattro volte al giorno (superiore alla dose che era stata letale per un’altra paziente di McIver). Stava bene, aveva iniziato a uscire e a lavorare, manovrava un bulldozer. Si sentiva come se gli avessero restituito la vita. Oggi Ben, che ha comunque avuto la fortuna di trovare un medico che ha preso a cuore il suo caso, è costretto a seguire una terapia molto meno audace (il suo medico ha paura delle conseguenze di prescrizioni incaute). Dorme circa tre ore a notte, ma non riesce a stare in piedi per più di mezz’ora. Non lavora più, si è ritirato.
(www.nytimes.com)

21 giugno 2007
Siamo andati con Gabriel Auer a Tuzla, dal 14 al 17 giugno, e abbiamo parlato a lungo con Irfanka Pasagic, la direttrice di Tuzlanska Amica, e con il gruppo di “Adopt Srebrenica” che promuove con noi la settimana di dialogo “International cooperation for memory” programmata a Srebrenica dal 27 agosto al primo settembre. L’appuntamento si inserisce in una situazione di crescenti tensioni. Si respira aria di rivolta e di svolta a Srebrenica. Il modello di società delineato a Dayton si dimostra in piena crisi. Quella che doveva essere una soluzione provvisoria, pensata per dividere i contendenti, si è via via consolidata nella pratica come una soluzione definitiva che favorisce la progressiva separazione delle due entità nelle quali è stata divisa la Bosnia-Herzegovina. Srebrenica costituisce in questo modello l’ultima anomalia e insieme l’ultima speranza che non ci si rassegni allo stato di cose esistenti, dove sembra che i diritti delle minoranze possano essere garantiti solo all’interno di territori etnicamente omogenei. Srebrenica si sente ancora oggi un’enclave a forte rischio di estinzione. Nelle prossime elezioni comunali di ottobre potranno votare solo coloro che sceglieranno di trasferire definitivamente la loro residenza in una città che non ha visto in questi 12 anni post-guerra segni di rinascita economica. Non varrà più la norma transitoria che consentiva il diritto di voto ai rifugiati espulsi tra il 1993 e il 1995. Il numero degli abitanti si è drasticamente ridotto, dai 37.000, in maggioranza musulmani, censiti nel 1991, ai 4000 -in maggioranza serbi- rilevati nel 2005. Gli assenti sono sepolti nel vicino memoriale di Potocari o rifugiati nelle città della Federazione, soprattutto a Tuzla.
(Edi Rabini)

23 giugno 2007
Nelle cittadine olandesi, sindaci e consigli comunali stanno chiudendo i famosi coffee-shop dove si vende e fuma marijuana, come pure i bordelli in cui le prostitute potevano “praticare” legalmente. Il parlamento sta considerando la possibilità di vietare la vendita degli allucinogeni “funghi magici”. I deputati cristiano ortodossi hanno introdotto un provvedimento che permette agli ufficiali pubblici di fare obiezione di coscienza alla celebrazione di unioni tra omosessuali. Le autorità olandesi infine stanno cercando di limitare le attività dei gruppi che aiutano ad abortire le donne che arrivano da paesi in cui l’interruzione di gravidanza è ancora illegale.
W.B. Kranendonk -editore di un giornale cristiano ortodosso in un paese che ha liberalizzato la prostituzione, l’eutanasia, l’aborto, i matrimoni omosessuali e l’uso di marijuana- non è più una figura bizzarra e solitaria nella scena politica olandese.
Con l’entrata, per la prima volta, di un partito cristiano ortodosso nel governo e con le ansie legate all’immigrazione che stanno rinfocolando spinte identitarie, il paese da sempre laboratorio libertario sta rivedendo le sue politiche all’insegna del “va bene tutto”.
Ma l’ondata proibizionista non riguarda solo i rappresentanti cristiani. Frank de Wolf, dei Labor, membro del consiglio comunale di Amsterdam, alla domanda se l’Olanda sia cambiata, non ha dubbi: “Sì. Non solo c’è un umore diverso tra la gente e i politici, oggi ci sono anche problemi diversi”.
L’Olanda sta attraversando la stessa metamorfosi razziale, etnica e religiosa che interessa l’Europa Occidentale. I consistenti flussi di immigrati arabi e musulmani stanno cambiando l’immagine di una nazione cristiana e bianca, ora in lotta contro la perdita di omogeneità. De Wolf, che lavora come ricercatore in un complesso medico che si occupa di prevenzione all’Aids, è piuttosto duro: “In passato abbiamo considerato la prostituzione legalizzata come una questione di emancipazione femminile, oggi la vediamo come sfruttamento e quindi va fermata”. Sempre de Wolf aggiunge di averne abbastanza dei turisti britannici che ogni venerdì prendono un volo low cost alla ricerca di sesso e droga nel quartiere a luci rosse, dove le prostitute stanno dietro le vetrine richiamando l’attenzione dei potenziali clienti.
“Amsterdam ha la reputazione del luogo in cui si può fare tutto. Non è il modo in cui vorrei che la gente ci guardasse”. Michael Veling, 52, proprietario di un coffee-shop denuncia come questa politica “ci sta riportando indietro di 35 anni”. Kranendonk certo non immaginava che sarebbe finita così: “Se nel 1995 mi avessero detto che un membro del maggior partito cristiano ortodosso oggi avrebbe fatto parte del governo, non ci avrei creduto”.
(www.washingtonpost.com)

25 giugno 2007
Il 25 giugno del 1962, nel dodicesimo anniversario della guerra coreana, Sung Kap Soon, sudcoreana, che allora aveva 38 anni e tre figli, aprì per la prima volta il suo diario e iniziò a scrivere: “Mio caro marito, ogni notte il mio cuscino è bagnato di lacrime di nostalgia per te. La vita va avanti, ma il mio corpo è lacerato…”.
Il paese quel giorno aveva ricordato l’evento con una commemorazione governativa di basso profilo, senza alcun cenno alle decine di migliaia di civili sudcoreani, tra cui il marito di Sung, Ha Kyok Hong, rapiti e portati via dalle truppe nordcoreane.
Lunedì la Corea del sud ha ricordato il 57° anniversario con scarsi commenti sul destino di quelle vittime di guerra dimenticate. In quei giorni le tre figlie avevano organizzato una festa di compleanno per gli 83 anni della madre, nel cottage della minore di loro, che vive a Yongin, 50 km a sud di Seul. Sung era in visita dal Canada, dove si è trasferita nel 1977 con la figlia maggiore.
Alla festa sono stati invitati anche i familiari di altri uomini portati via con il marito di Sung. Tutti hanno portato le foto dei loro cari. Anche le figlie e i nipoti di Sung avevano raccolto materiale sul padre.
Sung si è sposata nel 1943, quando la Corea era ancora sotto il dominio giapponese. La prima figlia, Ha Young Hwa, è nata nel 1946, sono poi arrivate Young Sun e Young Nam. La famiglia viveva allora in una casetta a Seul; avevano un mulino per la macina della farina. Erano una famiglia felice, ricorda Sung.
E’ stato nel 1950, con l’invasione delle forze comuniste che la loro vita è stata travolta; in tre giorni i nordcoreani hanno preso Seul. Prima che gli Usa riprendessero la città, nel settembre del 1950, sparirono circa 82.000 civili sudcoreani, pastori, insegnanti, giudici, uomini d’affari. Pare lo scopo fosse portare al nord dei professionisti.
All’indomani dell’armistizio del 1953 ci fu uno scambio di prigionieri di guerra, ma non dei civili. La Corea del Nord d’altra parte continua a sostenere di non aver mai preso alcun civile. Sung è riuscita a mandare al college le tre figlie e a ricostruire la casa danneggiata dalla guerra, vendendo per strada kit per la toilette, calzini e noodles, una specie di tagliatelle. Il marito di Sung allora aveva 29 anni e faceva parte di un movimento anticomunista. Sung aveva 26 anni, la figlia maggiore 4 anni e la minore qualche mese. Come migliaia di altre donne passate per lo stesso destino, non si è mai più risposata. Aspetta ancora il marito.
(www.iht.com)

25 giugno 2007
Riceviamo e pubblichiamo.
Il Resto del Carlino dà notizia dei guai di un ragazzino tedesco detenuto in Turchia e io ne approfitto per ricordarvi i guai di un ragazzino americano detenuto in Georgia.
Il diciassettenne Genarlow Wilson era uno studente modello, un bel ragazzo, capoclasse del liceo e bravo giocatore di rugby. Purtroppo non era edotto sulle complicate leggi che in Georgia regolano i rapporti sessuali consenzienti fra minorenni. Se ne fosse stato a conoscenza avrebbe accuratamente evitato di avere quel rapporto orale con la sua fidanzatina quindicenne. Se fosse stato a conoscenza della clausola “Romeo e Giulietta” avrebbe certamente scelto il rapporto sessuale normale, quello che produce effetti giuridici molto meno devastanti. Purtroppo il nostro promettente ragazzo nero non lo sapeva e così, pur avendo evitato la condanna per stupro, si è beccato dieci anni di galera. Ora Genarlow Wilson non è più niente: solo un galeotto nell’immenso gulag americano. La sua unica speranza è la grazia del Governatore, ma anche questa non metterebbe fine alle sue pene: resterebbe segnato a vita come “sexual offender” e nemmeno potrebbe tornarsene a casa: lo impedisce la presenza di una sorellina.
Di fronte a casi come questo si propone a gran voce che, insieme alle normali lezioni di educazione sessuale, si introduca l’insegnamento di diritto penale degli atti sessuali.
(Claudio Giusti)

27 giugno 2007
Riceviamo e pubblichiamo, in ricordo dell’anniversario di Srebrenica.
Sfoglio le lettere della croce rossa. Non le leggo sempre. Ci sono dei giorni che ci riesco e giorni che diventa insopportabile l’idea. La cosa più orribile sono le lettere tornate indietro, quelle scritte dalla mamma nel periodo che va da inizio giugno 1995 in poi. Papà non le ha mai ricevute. Le nostre parole, i nostri pensieri, le domande, non sono mai giunti a lui. Sono tornati a noi, come rimbalzando contro un muro di morte. Sul pacchetto di lettere arrivate sta scritto: “Ci scusiamo, ma non abbiamo potuto recapitare le lettere, la persona da voi cercata è momentaneamente dispersa. Se avrete notizie, vi preghiamo di avvertirci”.
Dopo l’11 luglio 1995, la mamma ha continuato a collegarsi sulla frequenza radioamatori e a lanciare messaggi nel vuoto, nell’indifferenza del radio trasmettitore, dal quale non è mai più risuonata la voce di mio padre o di mio zio.
Fra poco un altro anno si aggiungerà, di nuovo qualcuno si ricorderà dell’anniversario. Gli “osservatori” se ne ricordano sempre e solo il giorno dell’anniversario, il giorno i cui i nostri morti possono essere una notizia. Gli altri giorni non lo sono. Tutti gli altri giorni rimangono a noi.
Per me l’11 luglio a volte cade in pieno autunno, quando qualche cosa di questa mia vita all’estero mi riporta indietro e mi ferisce. A volte cade in pieno inverno, quando le parole nelle lettere del papà si materializzano nell’aria gelida e a me sembra tutt’ora impossibile che non ci sia più. Le sue parole di speranza nella fine vicina della guerra, i suoi progetti per il futuro, il suo sogno di poter di nuovo mangiare le torte fatte dalla mamma, tutto diventa così vivo in quei pezzi di carta, che la sua scomparsa diventa ancora più inaccettabile.
L’11 luglio è il giorno del dolore collettivo, il giorno in cui immagini di qualche telegiornale mostrano tanti volti radunati insieme a seppellire ossa trovate nel corso dell’anno. Il dolore individuale è di tutti gli altri giorni dell’anno, a telecamere spente.
L’11 luglio è il giorno delle promesse, delle scuse, delle accuse. E’ il giorno in cui il revisionismo viene messo a tacere dalle bare che sfilano, nelle quali leggere ossa raccolte forse riposano. E’ il giorno in cui tutto il mondo s’indigna per quello che è successo, ma se per caso viene emessa qualche sentenza a marzo, nessuno se ne cura, perché l’11 luglio è lontano. E se qualche criminale ancora passeggia libero e venerato, solo l’11 luglio qualcuno azzarda la promessa di prenderlo nel volgere di poco. Poi le luci si spengono e la violenza torna nel dimenticatoio; l’ingiustizia diventa di nuovo tollerabile e altri morti sensazionali riempiono le pagine dei giornali, fino a quando non diventeranno noiosi anche quelli, ma ce ne saranno di nuovi. ... E forse, ora che si avvicina l’11 luglio, bisognerebbe ricordare a qualcuno la data, bisognerebbe per l’ennesima volta chiedere giustizia, e aspettare, aspettare di trovare le ossa, aspettare di seppellire, aspettare di vedere riconosciuta e almeno in parte rivendicata la propria vita a pezzi. E chissà se anche l’11 luglio 2008 mi troverò a pensare le stesse cose, a chiedermi se la giustizia non sia solo una nostra irrealizzabile utopia.
(Elvira Mujcic)

30 giugno 2007
Un nostro lettore da Parigi ha chiesto discretamente a chi gli aveva regalato l’abbonamento se non fossimo un po’ antisemiti… “parlano sempre di Israele…”. Anche se sembra un po’ paradossale, visto che si riferisce a numeri in cui abbiamo pubblicato interviste decisamente favorevoli a Israele e al sionismo, questo ci sembra un buon argomento. C’è il Darfur, c’è di peggio al mondo, perché sempre Israele? Val la pena pensarci. Comunque la domanda “sono antisemita?” è una di quelle che possono accompagnare i nostri esercizi di autocoscienza per tutta la vita. Non è la sola però. Sono buone domande anche: “sono stato fascista?”, “sono diventato razzista?”, “sono maschilista?”. Per esempio, si può pensare che qualcuno che non si commuova più, mai, per la sofferenza dei palestinesi, che non ne parli più, che non voglia sapere cosa succede loro, che provi anzi una certa insofferenza se si accenna ai loro diritti, la domanda “sono diventato razzista?” possa anche farsela, per trovare certamente una risposta anche ragionevole e rassicurante, negativa, cioè. Ma farsi la domanda serve.
Dunque: perché parliamo sempre di Israele?

2 luglio 2007
Onore a Dounia. Un ringraziamento al ministro Amato per il sollecito conferimento della cittadinanza italiana. Un ringraziamento a Daniela Santanché, unico parlamentare della repubblica italiana presente davanti al palazzo di giustizia di Brescia all’apertura del processo per l’omicidio di Hina.
Tra parentesi: noi dov’eravamo?