Le lezioni della Grande Depressione?
Non incolpare te stesso; guarda agli altri...
I "big boys" non sono poi così in gamba.
Studs Terkel, attivista, personalità radiofonica, uomo del Rinascimento con una grande credibilità presso l’uomo della strada, il saggio di Chicago, un tesoro americano, è scomparso l’autunno scorso all’età di 96 anni.
Probabilmente sarà ricordato soprattutto per la sua capacità d’ascolto; come l’uomo che ha praticamente inventato la "storia orale” come genere popolare nel nostro paese.
Terkel possedeva un talento particolare per l’arte del dialogo, un’abilità senza eguali nel rassicurare i propri intervistati, qualunque fosse il loro retroterra culturale o ceto sociale, mettendoli a proprio agio in modo che potessero aprirsi e raccontare la propria vita.
Sapeva prestare il suo orecchio di poeta a tutto ciò che c’era di eroico in qualunque circostanza e questo retaggio ci viene preservato in opere quali "Hard Times”, "The Good War” e "Working” - testi essenziali per comprendere la cultura americana del secolo appena trascorso.
Sempre ottimista nei riguardi della democrazia e della capacità delle persone, unite insieme, di rimodellare il loro mondo in maniera creativa, Studs ci ha offerto il consiglio sopra citato durante una delle sue ultime conversazioni registrate con lo scrittore Alex Kotlovitz, di Chicago come lui. Ciò avveniva mentre Wall Street era in caduta libera, il sistema bancario e creditizio era bloccato e l’intera economia globale precipitava verso la crisi. Egli notava le analogie con quanto lui stesso aveva sperimentato da adolescente, alcuni decenni fa, nei primi anni Trenta: "Hoover era ancora presidente. La gente scialacquava. Poi, Bum! Il crollo. Improvviso, inatteso. Gli uomini si gettavano dalle finestre. Non sapevano cosa fare. I saggi avevano fatto i loro comodi e poi erano andati a piangere da Roosevelt, chiedendo l’aiuto del governo. Regole. Chiedevano regole. Le chiedevano a gran voce. I saggi erano smarriti e disorientati, proprio come oggi”.
In effetti, sembra di trovarsi di fronte ad una replica dei catastrofici slump del passato e le cause odierne, gratta gratta, rimangono le stesse di allora: egoismo, avidità, ego, capitalismo predatorio, speculazione incontrollata, ricerca di una ricchezza sovrumana a spese degli altri.
Come commenta, con orrore e pietà, un personaggio del lontano futuro in un romanzo di Kurt Vonnegut -altro figlio della Grande Depressione recentemente scomparso-, "quali sogni impossibili di crescita avevano gli esseri umani”.
Via via il sogno si rivela irrealizzabile, insostenibile e alla fine porta sempre al collasso e a una serie infinita di sofferenze.
Attualmente, i colpevoli più ovvi sono i "big boys” come i manager degli hedge fund, gli amministratori delegati delle corporation e gli affascinanti gangster free-lance come Bernard Madoff coi loro profitti virtuali, schemi Ponzi e orizzonti a breve termine al limite dell’incoscienza, ma noi tutti abbiamo la nostra parte di responsabilità.
Per fortuna dell’America e del mondo, a Washington ora c’è una nuova leadership intelligente, con un impegno concertato ai più alti livelli per superare la paralisi e la corruzione morale degli anni di Bush, che tanto hanno contribuito a tutti i nostri guai.
Dopo un elettrizzante trasferimento di poteri in gennaio -solo qualche settimana fa-, il presidente Barack Obama ha certamente commesso degli errori, sconvolgendo critici a destra come a sinistra, lanciandosi in "sperimentazioni audaci” alla Fdr nel bel mezzo della crisi che ha ereditato. Tuttavia si vedono già segnali incoraggianti del fatto che egli realizzerà quella "speranza” e quel "cambiamento” che ha promesso durante la campagna elettorale.
Il presidente sta abilmente sfruttando la sua popolarità per neutralizzare gli oppositori e attuare le sue politiche.
Un sondaggio reso pubblico questa settimana, sulla scia del pacchetto di Obama per stimolare la crescita interna; il suo serio tentativo di riportare in buona salute un’industria automobilistica sovradimensionata, rendendola più snella e più verde, e il suo primo viaggio all’estero, hanno dimostrato che il presidente gode del sostegno dei due terzi dell’opinione pubblica americana e che questa maggioranza comprende che ci vorrà del tempo prima che le soluzioni, in particolare in relazione alla crisi economica, producano dei risultati. Di sicuro la maggior parte della gente è già contenta di avere un leader in grado di esprimersi con frasi di senso compiuto, di mantenere la calma anche quando è sotto pressione, di affrontare temi complessi e di accogliere, senza demonizzarli, anche punti di vista diversi dai suoi.
Le sue aperture nei confronti di avversari di lunga data, come l’Iran e Cuba, sono forieri di un nuovo pragmatismo, lontano dalle certezze ideologiche e dall’arroganza del recente passato. Dopo aver pagato un prezzo molto alto, gli americani sono sul punto di riunirsi al resto del mondo.
Per ironia della sorte, l’unico "avversario” che ha rifiutato la mano tesa di rispetto e negoziato del presidente è stata la minoranza repubblicana a Washington. Quasi nessuno di loro ha dato il proprio appoggio in votazioni chiave, ha offerto alternative concrete, o si è dimostrato disponibile a cooperare in uno spirito di soluzione bipartisan dei problemi. Disorientati, infarciti di autorecriminazione e slogan ormai screditati, restano impantanati, secondo i sondaggi, al più basso livello di consenso.
Tuttavia il presidente Obama non è un mago e i progressisti hanno ragione quando sostengono che alcune delle sue proposte economiche sono troppo timide e troppo poco ambiziose e mirano a resuscitare la cultura bancarottiera della spesa, del consumismo e del debito che ci hanno portato a questo punto.
Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è un profondo ristabilimento dei valori e la rinuncia alla gratificazione immediata, alla vistosità e a una "prosperità” basata su eccessi materiali. Vonnegut diceva che molti suoi coetanei, dopo la seconda guerra mondiale, erano ossessionati dall’accumulare la "bigiotteria” della società dei consumi; una caccia infinita e vana, che può solo garantire un allargamento della forbice della disuguaglianza, un numero sempre crescente di boom e crolli e un pianeta penosamente degradato.
Alcuni di questi valori sono stati trasmessi alla generazione del baby boom e poi, a sua volta, ad alcune delle generazioni più giovani.
Riusciranno i "figli del nuovo millennio” a liberarsi dalla dipendenza dagli ipod, dai telefonini, dalle tv al plasma e da tutte quelle protesi che li circondano e fanno da puntello alla loro consapevolezza? Saranno veramente capaci, per necessità o per scelta, di uscire da quel labirinto di tecnologia, banalità e beni di consumo che abbiamo lasciato loro in eredità? Riuscirà il Primo Mondo, in questa nuova austerità, a guarire se stesso dal morbo della "superfluite”? E’ giusto essere scettici. Alcuni pensavano che, dopo il trauma dell’11 settembre, si sarebbe ritornati a un’etica più sana, incentrata sulla comunità, ma quello che è seguito è stato in gran parte un altro periodo storico di ingordigia e gangsterismo. Il frutto amaro di quest’epoca rimarrà con noi per molto tempo.
Fino alla fine Studs Terkel rimase fermo nella sua convinzione che la gente si sarebbe svegliata, avrebbe fatto causa comune, riappropriandosi di valori che andassero oltre l’acquisizione di beni materiali. La chiave, sosteneva, sta nel "guardare agli altri” nella buona e nella cattiva sorte. L’autunno scorso egli ci ha ricordato che, senza un vero senso comunitario e senza la speranza che esso può sostenere e nutrire, "non potrete farcela. Finché avremo questa speranza, saremo a posto. Quando ti attivi per aiutare gli altri, ti senti vivo. Non pensi ‘E’ colpa mia’; diventi una persona diversa. E anche gli altri cambiano”.
Gregory Sumner
Detroit, 7 aprile, 2009 sumnergd@netzero.com
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