E ora vedo tutti quei pezzi grossi
che durante il tg della sera piagnucolano
di come stanno perdendo miliardi
e che sta a me, a noi, correre in loro soccorso.
La "Rust belt” americana è nei guai. Non si tratta certo di una novità, e di fatti l’attuale tracollo economico non è che il brusco aggravarsi di un declino che è iniziato da molto tempo, un fenomeno che poteva essere previsto già da anni. Le fabbriche di auto del Michigan, dell’Ohio, dell’Indiana e degli altri Stati dei Grandi Laghi, assieme alle acciaierie, le manifatture dei vari componenti, e miriadi di imprese associate, avevano continuato a fiorire per decenni, dopo la Seconda Guerra Mondiale, rendendo accessibile a milioni di persone il sogno della scalata sociale; ma la bramosia sconsiderata e una cattiva gestione dei capitali hanno contribuito a far sprofondare un settore un tempo vitale in quello che potrebbe diventare il suo letto di morte. E’ perlomeno dagli anni 90 che gli executives delle grandi aziende americane, un’élite provinciale e poco reattiva ai cambiamenti, hanno optato per i profitti facili dei Suv assetati di benzina. E così, mentre incameravano gli enormi profitti, i Giganti del settore hanno trascurato gli investimenti in automobili efficienti in grado di competere con i modelli che arrivavano da Asia ed Europa, una volta esaurito il fiume di benzina a poco prezzo. Ora siamo noi a pagare il prezzo di questa miopia. Un giorno, il modello "Hummer” della General Motors -fino a poco tempo fa chiassoso status symbol per aspiranti borghesie suburbane- verrà esposto nei musei come artefatto simbolo di un’era di follie ed eccessi. Gli antropologi culturali del futuro, forse, saranno in grado di spiegarci come questi osceni e inefficienti bestioni nascondessero il nostro tentativo di rassicurarci in un mondo sempre più insicuro, un tentativo di colmare un vuoto spirituale. Tentativo fallito, e miseramente.
Il cantante country John Rich ha conquistato l’attenzione di destra e sinistra con una canzone che esprime al meglio la rabbia populista contro quella classe dirigente che ha gettato nel baratro così tanti istituti finanziari. "Beh, scusatemi se non verso una sola lacrima”, così si lamenta della bravata il protagonista della canzone di Rich, forse un camionista, una cameriera o un operaio disoccupato del settore auto. "Vorrebbero venderci le loro fantasie, ma qua non ne compriamo”.
Perché nel mondo vero stano chiudendo Detroit,
mentre il boss va fuori città
con i jet comprati coi bonus
A Washington salvano i banchieri,
mentre i contadini devono vendere le terre
Mentre loro se la spassano a Wall Street,
nella città di New York
Qui, nel mondo reale, stanno chiudendo Detroit.
Qui, nel mondo reale, stanno chiudendo Detroit.
"Detroit”, ovviamente, sta per le "tre grandi”: Ford, Chrysler e General Motors, questi marchi di fabbrica icone, che un tempo erano la spina dorsale della potenza economica americana, e che negli ultimi mesi hanno patito perdite tanto catastrofiche.
Ford e General Motors sono rapidamente scivolate verso la bancarotta, mentre la Chrysler punta al matrimonio con la Fiat per velocizzare la produzione di auto più leggere e piccole, unica speranza in un mercato disastrato. I dirigenti più conservatori, che un tempo vedevano dietro ogni tipo di intervento statale il demone del "socialismo”, ora si mettono in fila, in ginocchio, a chiedere un’altra cima di salvataggio per tenere a galla un altro po’ i loro vascelli, che affondano senza scampo. Al Presidente Obama va riconosciuto di aver scelto misure drastiche per stabilizzare la caduta libera che aveva ereditato quattro mesi fa: ha imposto condizioni rigide ai prestiti che il Tesoro, anch’esso indebitato fino al collo, ha continuato a elargire. A marzo, Obama aveva chiesto la testa del capo di GM Rick Wagoner, sottolineando l’idea che dal quel coacervo di dinosauri responsabili di un disastro tanto clamoroso non sarebbe potuta venire fuori alcuna nuova direzione. Recentemente la Casa Bianca, ispirandosi alle direttive emanate dalla California sotto la guida di quel repubblicano anticonformista di Arnold Schwarzenegger, ha annunciato con grande enfasi di voler imporre limiti rigorosi al consumo di carburante. Si tratta di terapia d’urto, mirata a rimettere in piedi un paziente moribondo per riportarlo in gara con il resto del mondo. Certo è auspicabile che simili iniziative proseguano, e che non siano tardive, o che non esigano un tributo troppo alto in termini di posti di lavoro e benefici per quanti stanno alla base della piramide sociale. Ma anche la dirigenza della United Auto Workers il sindacato del settore auto statunitense ha le sue responsabilità nel disastro, e ci si continua a domandare se i suoi leader stiano facendo abbastanza per difendere i propri rappresentati. Quand’è che vedremo la fine dei licenziamenti, e come faremo a garantire un salario minimo completo di assicurazione sanitaria agli operai che costruiranno le efficienti macchine del futuro? Cosa succederà alle pensioni di quanti hanno dedicato gran parte della propria esistenza a queste aziende ora nei guai? Il settore pubblico deve continuare a giocare un ruolo attivo, e guidarci fuori da una crisi che al momento promette solo di peggiorare.
Su un altro livello, "Detroit” è un posto vero, parte di quel "mondo vero” di cui canta John Rich, perché qui il dolore per il disastro recente è evidente a tutti. La città stessa, ora abitata prevalentemente da afro-americani, a quarant’anni dalle rivolte del 1867, continua a perdere abitanti e contribuenti. Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 22%, ma sicuramente il valore reale è molto più alto. Con i suoi enormi deficit, le scuole e gli altri servizi pubblici ormai compromessi, parte della classe politica tristemente corrotta, Detroit è ormai sinonimo nazionale di malfunzionamento.
Comunque, i suoi problemi non sono certo diversi da quelli di tante altre località della Rust Belt, e il sisma non rimane confinato entro i limiti cittadini. L’area metropolitana intanto sta sperimentando le patologie dell’abbandono: basta fare un giro nelle aree periferiche per vedere come siano sempre più i negozi deserti e le case pignorate, alcune anche di lusso. Ponti, strade e le altre infrastrutture, ormai datate, cadono a pezzi. In una società fondata sulla crescita perpetua, l’edilizia ha subito un brusco arresto; in un paese che celebra il consumismo sfrenato, i grandi centri commerciali attirano sempre meno auto nei loro immensi parcheggi e sempre meno acquirenti si avventurano nei corridoi al fresco dell’aria condizionata.
Gli effetti peggiori sono ricaduti su quanti vivevano vicino, o sotto, la soglia della povertà. In che futuro può sperare questa gente nel breve periodo, se non in quello dei propri figli e dei propri nipoti?
Un reporter del New York Times ha intervistato alcuni dei pochi impiegati che ancora lavorano alle operazioni di assemblaggio nella fabbrica di Flint, un’ora a nord di Detroit -sede dei famosi scioperi organizzati degli anni ’30, paese natale di Michael Moore, e che ora è il fantasma della città che fu. Le fabbriche della General Motors, che venticinque anni fa davano lavoro a 80.000 uomini e donne, sono solo un ricordo: in gran parte sono state demolite nel 1999. I precari sopravvissuti ammontano a sole 5000 persone. "Si parla di chiudere una fabbrica”, ha commentato Bill Jordan, rappresentante locale della United Auto Workers che si preoccupa del futuro di quella che per trentadue anni è stata la sua casa. "Ma abbiamo chiuso una città, qui. Tutto ciò che ha una grande città l’avevamo anche qui”.
"Chiudere Detroit”? Chiudere la Rust Belt? La gente di questa parte degli Stati Uniti è giustamente famosa per la propria resilienza e per l’etica del lavoro, e pur nell’angoscia c’è qualche segnale di speranza che questa regione possa riuscire in qualche modo a reinventarsi, una volta che saranno finiti questi tempi magri. Forse cambieranno i valori, forse le vecchie barricate tra comunità cadranno, permettendo a quell’importante capitale umano, intellettuale e tecnologico ancora rimasto, qui, di librarsi (con finanziamenti, e un po’ di assistenza strategica, da parte del Governo) verso quel futuro più accorto e verde che i nostri figli vorrebbero. Forse assisteremo al boom delle centrali eoliche sul Lago Michigan, a sistemi di trasporto più vendibili e sostenibili di quelli impiegati negli anni gloriosi, ormai finiti per sempre. Forse Detroit, che già in diverse occasioni ha subito simili tracolli, potrà ancora una volta ergersi a simbolo della rinascita, e rendere onore al proprio motto cittadino, decisamente ottimista, scelto dopo il devastante incendio del 1805: Speramus meliora. Resurget cineribus. (Speriamo in meglio. Risorgerà dalle ceneri).
Detroit, Gregory Sumner
sumnergd@netzero.com
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