Giovanni Giudici, ovvero "la vita in versi”, come dice il titolo del suo primo libro importante. Giudici, ovvero l’uomo medio entra in poesia. Fra Zanzotto e Pasolini, suoi coetanei, che praticano l’oltranza lirica o morale, con Giudici il linguaggio poetico scende nella normalità quotidiana. Sia come autore che come personaggio centrale della sua opera, Giudici è il meno poetico dei poeti. Così almeno è nato, si è rivelato e proposto nel primo ventennio della sua attività: con La vita in versi (1965), Autobiologia (1969), O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981). È vero che anche lungo questa sequenza di libri lo stile cambia, si ramifica e si complica sconfinando dai limiti diaristici e narrativi iniziali. Ma il suo primo completo autoritratto poetico di uomo che vive una vita impoetica, resta nella cornice realistico-neoborghese dell’epica impiegatizia accerchiata da rimorsi, tentazioni, incubi, evasioni e frustrazioni.
Il libro fu tempestivo. Erano gli anni del cosiddetto "miracolo economico” italiano. Sviluppo industriale mai visto prima che coinvolgeva anzitutto il triangolo Torino-Milano-Genova. Emigrazione dal meridione d’Italia verso il nord. Formazione di una nuova classe operaia e di una nuova classe media. Riflessioni politiche sul neocapitalismo e su ogni tipo di "alienazione”. Giudici dice la sua in versi, introduce dichiarazioni di autocoscienza, mette in versi la prosa di un diario sconsolato:

Metti in versi la vita, trascrivi
Fedelmente, senza tacere
Particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
Sapere, né potere, bensì ridicolo
Un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
Complicità di visceri, saettando occhiate
D’accordi. E gli astanti s’affacciano

Al limbo delle intermedie balaustre:
Applaudono, compiangono entrambi i sensi
Del sublime – l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire
È possibile a tutti più che nascere
E in ogni caso l’essere è più del dire.          
(La vita in versi)

Oltre che essere un allusivo schema sintetico di evidenze quotidiane, questa è una formulazione programmatica. Da un lato c’è la vita, dall’altro ci sono i versi. La prima è informe e opaca, i secondi sono una forma che riscatta e indaga. La metrica è solo in apparenza regolare, oscilla intorno alla misura dell’endecasillabo: si va dalle nove sillabe ("fedelmente senza tacere”) al doppio settenario di quattordici ("particolare alcuno, l’evidenza dei vivi”). L’organizzazione strofica è in terzine in cui il primo verso rima con il terzo. Nell’insieme l’effetto è di una certa regolarità che contrasta con una serie di immagini e affermazioni nello stesso tempo perentorie e oscuramente aggrovigliate. Ma l’ultimo verso riformula in termini di giudizio un titolo neutro come "La vita in versi”: perché "l’essere è più del dire” e la vita viene prima, in tutti i sensi, dei versi. La situazione è quella di un’autoanalisi del tutto negativa. Mentre l’economia sta creando ricchezza, benessere e promozione sociale, il singolo, in questo caso l’autore, non partecipa, non si rallegra, vede il negativo nel positivo e accusa se stesso di inerzia, viltà, falsa coscienza:

Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.

Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.      
(Dal cuore del miracolo)

Anche qui due quartine, questa volta di endecasillabi, con un paio di rime: e le parole in rima sono quelle che contano di più: "ridere… vivere”, "credere… cedere”.
Agli epigrammi morali si alternano poesie più ampie e narrative, a volte veri e propri poemetti. Ecco il più famoso:

Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta ...[continua]

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