Un intervento di Massimo Donini sul sistema delle sanzioni penali
di politica e altro
Una Città n° 212 / 2014 Aprile
Articolo di Massimo Donini
Il raddoppio del male
Il rifiuto di un’ideologia che vede la pena come un male che si aggiunge al male commesso; la lezione di Federico Stella per una sanzione penale come ultima ratio, dove a essere fondante è invece l’idea riparativa, il risarcimento, che non è necessariamente economico e non è necessariamente destinato alla vittima, ma può essere anche a favore della collettività; l’assurdità di un sistema, quello attuale, che moltiplica le sanzioni abbandonando la vittima alla sola azione civile per ottenere, su un altro binario, una riparazione. Un intervento di Massimo Donini.
Ringrazio di questa opportunità, perché quello di cui vado a trattare è un tema per me molto coinvolgente, anche per i suoi potenziali impatti pratici. Nella vita ci sono delle situazioni in cui, quando si arriva a pensare una cosa per la prima volta, una cosa nuova, si capisce poco dopo che non si può più tornare indietro, che quello è ormai un nuovo punto di partenza. Ecco, a me è successo, su questo tema, proprio questo.
Noi penalisti, in particolare gli studiosi che pensano al diritto penale come a una disciplina con una sua dignità scientifica, siamo portati a costruire questa dignità scientifica più sulla teoria del reato che non sulla teoria della pena.
Infatti, nella teoria del reato è evidente la presenza di un maggior tecnicismo, di un maggior consolidamento di categorie, di sistematiche, anche a livello sovranazionale.
Per quanto riguarda la pena, invece, vi è il dominio assoluto della politica. Basti pensare che, dal punto di vista della legittimità costituzionale, non è possibile sindacare né l’an, né il quantum, delle pene, a parte il caso, tutto sommato "limite” dell’irragionevolezza assoluta, o di tipologie di sanzioni oggi ritenute inammissibili a livello europeo o sovranazionale (per es. pena di morte, pene degradanti etc.).
Quindi: un dominio vero della politica.
Partendo da questa considerazione, naturalmente dobbiamo anche fare i conti con lo spirito del tempo, che ci dice che noi oggi crediamo sicuramente alla pena "utile”.
La pena è un male, normalmente subìto, ma che può essere anche agìto: è un male che si aggiunge al male commesso e quindi, potenzialmente, se a quello la pena è proporzionata, lo raddoppia. Quando la pena si fondasse sull’idea post-riparatoria, essa potrebbe o comincerebbe a supporre un soggetto che agisce per (e non si limita a subire) una sanzione diversa da quella puramente passiva, della pena classica.
Ora, l’idea della riparazione (e del rapporto tra pena e altre sanzioni) deve scontare, nel nostro sistema, il fatto che il codice penale ha un’idea molto più vicina alla pena retributiva, e lo si vede nella disciplina delle ipotesi di c.d. "desistenza volontaria e recesso attivo” (1), perché quando si è commesso un reato che rientra nella teoria dei delitti, non si torna più indietro, al massimo c’è un’attenuante (lo si vede nell’attenuante del danno risarcito, nella riparazione dell’offesa).
Noi abbiamo tantissime ipotesi di riparazione, di perdono, di forme di comportamento sopravvenuto che portano a soluzioni di non punibilità o di forte riduzione della punibilità. Ho cercato di farne una rassegna, in uno studio di qualche anno fa, e sono veramente tante. La vera politica criminale si gioca qui, qui sta il diritto penale moderno: nelle soluzioni che io chiamo "di non punibilità” o di degradazione della punibilità, fondate su comportamenti sopravvenuti, su situazioni sopravvenute.
Il vero problema della posizione tradizionale su questi argomenti è che noi abbiamo, da un lato, il fondamento proporzionalistico-retributivo classico del codice penale e dall’altro quello generalpreventivo che, però, veramente non tengono.
La proporzione, come base della retribuzione, è un’idea che non ha un fondamento scientifico. Mentre nel diritto civile noi abbiamo una sanzione quasi matematica -un risarcimento di cui possiamo dire, a prescindere dal giudice che ci giudicherà, "dato il danno X avremo la sanzione Y”- nel penale nessuno può dire quale sarà la sanzione reale, essa cambierà da giudice a giudice. Ma già in astratto è impossibile effettuare una vera commisurazione tra i beni in gioco, perché la pena della libertà non è commisurabile al patrimonio, a tutti i beni universali, collettivi, particolari... Non c’è un criterio commisurativo, non c’è bisogno di essere un fisico o un matematico per rendersene conto: anche un giurista deve ammettere che non c’è un parametro per individuare una vera proporzione tra le migliaia di possibili illeciti che offendono gli interessi più svariati, e i beni della libertà, del patrimonio e dell’onore che la pena criminale colpisce e che affida al giudice nella scelta tra un minimo e un massimo nella cui determinazione egli è veramente arbitro.
Ora, per quanto riguarda l’idea di proporzione, questo, per me, è tranchant. Non c’è un fondamento scientifico nella misura della pena in astratto e in concreto, e quindi tutto non può che basarsi su convenzioni; chiaramente, basandosi su convenzioni, possiamo anche dire, come Shylock nel "Mercante di Venezia”, che una libbra di carne vale la sanzione rispetto a un debito di tremila ducati. Però, appunto, è tutto convenzionale, non esiste una reale base scientifica, cosicché a livello planetario registriamo criteri di commisurazione e tabelle sanzionatorie, previsioni astratte, escursioni possibili di pene, estremamente diversificati e non comparabili tra loro.
Per questo sostengo che, nella teoria del reato, c’è maggiore scientificità che non nella teoria della pena e che l’idea retributiva non si fonda su una base scientifica.
Il discorso non è migliore partendo dall’idea general-preventiva. Quando noi vogliamo fondare il nostro sistema punitivo sulla prevenzione generale, allora non facciamo un discorso prettamente penalistico: la prevenzione generale non è un discorso penalistico, ma un discorso di sistema. La prevenzione la fa l’intero ordinamento, anzi, la pena dovrebbe intervenire perché gli altri sistemi preventivi, bene o male, non sono (stati) sufficienti e, dunque, le scelte del legislatore tengono conto dell’impatto economico e giuridico di tutto il sistema.
C’è poi un altro problema: la questione della colpevolezza.
Non possiamo fare a meno della colpevolezza, perché è certamente un limite alla prevenzione generale: ma è impossibile misurare la colpevolezza, misurare la colpevolezza è una follia scientifica. Io non amo la colpevolezza come rimprovero, tuttavia, tradizionalmente, la "colpevolezza rimproverante” entra nel discorso dei penalisti: si tratta di un discorso sociale e antropologico interessante, ma, a mio avviso, dovrebbe essere tecnicamente espunto dal linguaggio di un diritto penale laico.
Ora, premesso questo, c’è un altro punto col quale non abbiamo fatto veramente i conti, un punto che risale a Feuerbach, il quale, nella "Revision”, costruisce, da un lato, la prevenzione generale come finalità del sistema e, dall’altro, a livello esecutivo-applicativo, invece non ammette la prevenzione generale nell’applicazione della pena. In quel testo egli fa una chiara distinzione: l’applicazione della pena -che è la vera pena giuridica (la pena giuridicamente intesa non è quella minacciata, è quella che applica il giudice)- non è declinata secondo la prevenzione generale. Deve essere la pena "meritata”.
Tuttavia, la prevenzione generale è il fine politico, e anche giuridico, della pena minacciata.
In questa differenziazione tra pena in astratto e pena applicata si annida un sofismo, un errore sicuramente, cioè la possibilità di tenere distinti i due momenti. Se la prevenzione generale è un fine tecnico della pena astratta, il giudice dovrà applicarla, tenendo presente questo fine. Infatti, chi dice che in astratto c’è una finalità e poi nell’applicazione ce n’è un’altra, fa un’operazione di maquillage teorico, mentre, in realtà, la prevenzione generale, giustamente, se è una finalità ab origine, deve poter essere considerata nel momento dell’applicazione. È inevitabile che sia così. Del resto, quando io fisso a trent’anni e rotti la pena per il sequestro di persona a scopo di estorsione, evidentemente, quando la applico, non posso che applicare quell’eccesso di prevenzione generale che c’è stato ex ante. La devo applicare, e potrò cercare di ridurla, caso mai ricorrendo a un’interpretazione costituzionalmente conforme. Ma da quella cornice rimarrò condizionato.
Allora qui, se c’è questa contraddizione, dobbiamo risolverla. E, per risolverla, dobbiamo dire chiaramente che la prevenzione generale fonda politicamente la pena ed è una funzione della pena, ma non è un fine tecnico.
Il fine è un discorso tecnico, la funzione è un discorso politico-sociologico. E, su questa base, potremmo dire: attenzione, non si fanno discorsi di prevenzione generale per distinguere il "dolo eventuale” dalla "colpa cosciente”(2). Non si fanno discorsi di prevenzione generale quando si vuole applicare o disapplicare l’error juris (3). Non si fanno discorsi di prevenzione generale quando dobbiamo interpretare la legge.
La prevenzione generale ha, come dire, una sua moralità, che è quella che serve per la difesa sociale, per tutelare le vittime. Benissimo. Però, questa moralità ha delle condizioni giuridiche. Le condizioni giuridiche sono: la tutela di beni e non di altre cose; il principio di colpevolezza, che è un limite alla prevenzione generale; il divieto di retroattività.Se la prevenzione generale non è compensata da un’idea di proporzione ex ante già al momento della fissazione della cornice finisce per introdurre una sorta di retroattività e di responsabilità per fatto altrui, perché io pago di più, una pena maggiorata, per fatti che potranno essere commessi da terzi in futuro. Ma io pago adesso sulla mia pelle. E, quindi, c’è una sostanziale violazione del divieto di retroattività e del divieto di responsabilità per fatto altrui, perché una parte della mia pena sconta i fatti futuri altrui. Ecco, se queste idee vengono messe insieme e portate a conseguenza, si deve arrivare ad una proposta di diversa strutturazione del sistema sanzionatorio.
Quello che ho detto non riguarda solo il sistema italiano. Riguarda la pena in generale e vale in Germania come in Sudamerica. Invece, il sistema sanzionatorio italiano ha dei problemi tutti suoi, specifici. Non sto ora a parlare dell’ineffettività, delle differenze di classe, che non sono un problema del penale ma della società, e il penale la riflette, eccetera, eccetera.
I problemi specifici sono le cornici edittali (4), tradizionalmente costruite secondo una certa logica, eccessive, esagerate; i problemi sono alcuni istituti, che sono prettamente italiani e condizionano tutta la commisurazione. Mi riferisco al sistema delle circostanze, al concorso di persone, all’istituto della capacità a delinquere dentro all’art. 133 del Codice penale (5) e anche alla distinzione delitti/contravvenzioni (6).
Sono caratteristiche peculiarissime nel sistema italiano, non le ritroveremo così in altri sistemi, e hanno questa peculiarità: risolvono in commisurazione della pena problemi di teoria del reato. La distinzione autore/partecipe è tutta lasciata alla commisurazione!
La distinzione, a livello di elemento soggettivo, tra dolo e colpa, è tutta lasciata alla commisurazione della contravvenzione.
Tornando alle cornici edittali, esse sono tradizionalmente costruite in un modo posticcio su esigenze le più varie e che hanno bisogno di essere compensate a posteriori in un’ottica di pura discrezionalità giudiziaria, perché poi il giudice si trova a dover aggiustare le cose a posteriori. In realtà, non ci dovrebbe essere un minimo edittale, salvo che per i reati più gravi: solo così riusciamo a fare una commisurazione individualizzata.
Chiaro che questo comporta tutta una diversa cultura della discrezionalità. E un recupero del principio di colpevolezza. Perché, se c’è una commisurazione senza teoria e se essa è lasciata alla prassi della commisurazione giudiziaria, che non è motivata e che sappiamo come funziona, allora dobbiamo riportare al centro il principio di colpevolezza.
Il principio di colpevolezza vuol dire che chiaramente si fanno i conti con tutta una serie di differenze soggettive: dolo, colpa grave e colpa lieve devono restare sicuramente nell’orizzonte, anche se poi la misurazione in concreto può essere problematica. Questa è una caratteristica del sistema italiano. Che rende difficile ogni commisurazione in concreto.
Per arrivare a una diversa soluzione, abbiamo bisogno di riformare le cornici edittali. I minimi edittali dovrebbero scomparire nell’80% dei casi, secondo la mia prospettiva. Ci sono delle eccezioni, che adesso non sto ad analizzare.
Veniamo al tema del rapporto della pena col risarcimento del danno a riparazione dell’offesa.
Ecco, qui, sicuramente, l’idea da cui parto è che il rifiuto dell’ideologia del raddoppio del male è un punto di non ritorno: io non posso più pensare, non posso continuare a fare questo mestiere pensando alla pena come a un raddoppio del male. Ricordo una lezione che fece Federico Stella a Modena, intorno al 2003-2004, in cui presentava Giustizia e Modernità; parlava anche dell’esigenza di rivedere tutta la filosofia dell’intervento penalistico, perché bisognava puntare su altri sistemi, il penale doveva essere molto più ridotto, bisognava puntare sull’amministrativo, sul diritto civile, su altri sistemi sanzionatori. E allora mi disse che mi voleva passare il testimone nel portare avanti questo discorso e se volevo raccogliere la bandiera. Io, preso alla sprovvista, risposi: "Sì, per carità...”, ma in realtà non sapevo bene che cosa volesse dire! L’ho capito dopo. Ho capito che arriva un momento in cui, effettivamente, al di là del fatto che hai dedicato la tua vita a studiare il diritto penale e ci sono tante cose anche molto belle dal punto di vista culturale e tecnico, ci sono questioni più importanti. E allora vedi che il senso e il futuro di una disciplina può essere soltanto nell’abbattimento di alcune eredità del passato o anche della sua storia.
Il diritto penale porta nel suo Dna il fatto di essere nato sulla pena di morte. Non pensiamo che solo perché da sessant’anni o poco più l’abbiamo abolita qui, non abbiamo le tracce di questo. Tutto il sistema punitivo porta le tracce di questa eredità storica millenaria, che è tutta la nostra storia. È la nostra storia. E quindi, quando cominciamo a ragionare su queste cose, dobbiamo avere il coraggio di girare pagina.
Tanti hanno detto in modi diversi e in contesti diversi quello che io sto dicendo oggi, quindi, per fortuna, so di non essere troppo originale, né mi interessa. Invece, mi interessa accennare a quello che dicevo, il rapporto con la riparazione e quindi l’idea riparativa.
Un nuovo concetto di sanzione che si basi sulle premesse che adesso ho un po’ accennato brevemente presuppone che la sanzione penale non veda più il momento della riparazione, del risarcimento come un’eventualità. Voi prendete il codice, prendete il ragionamento che si fa, prendete qualsiasi testo e troverete, se siete nel penale, che innanzitutto c’è la pena. Poi, eventualmente, c’è il risarcimento. Poi, eventualmente, c’è la riparazione. Poi ci sarà qualche attenuante. È tutto lasciato là: eventuale, secondario, un problema che si vedrà in concreto, te lo dirà il difensore che cosa ti conviene fare, se vuoi avere una pena minore.
Invece no: se la pena è davvero l’ultima ratio nella costruzione legislativa e lo è anche nell’applicazione, la pena deve avere alla sua radice un raffronto originario con l’idea riparativa: cioè ci si deve rendere conto che, in generale, di pena criminale, di sanzione penale, c’è bisogno quando la riparazione non c’è stata o quando non è possibile.
Solo allora si capisce che ha un senso non il raddoppio del male, ma una sanzione diversa perché, per tutte le ragioni politiche che sappiamo, c’è comunque bisogno socialmente di una transazione. In fondo noi stessi riconosciamo che se c’è stato un risarcimento alla fine potrebbe non esserci bisogno della pena. O comunque potrebbe essere diversa, anche molto diversa. Perché, certo, se uno ha i soldi per pagare il risarcimento e un altro no, allora sarebbe evidentemente, di nuovo, una differenza di classe a promuovere questo tipo di risarcimento, benefico per alcuni e per altri no.
Ma ciò a cui faccio riferimento è un concetto molto più ampio: non c’è soltanto il risarcimento per chi può, c’è una riparazione che può essere nelle forme più varie.
Ci sono tante strategie possibili, anche contro la volontà della vittima: se la vittima non vuole, posso effettuare una riparazione a favore della collettività; posso effettuare una mediazione a favore di una vittima vicaria, un altro soggetto. Ci sono tanti strumenti già operativi in alcuni settori. A questo punto l’idea riparativa sta alla base della sanzione, perché la stessa misurazione, la stessa misura della pena dovrebbe essere pensata tenendo conto, dall’origine, se c’è stata o non c’è stata una riparazione, un risarcimento.
Allora, se è così, la stessa proporzione cambia, perché io non parto dall’idea che c’è la pena e quindi il bene è questo e quindi la sanzione è quella, duplicante il male. No, io parto dall’idea che tutto dovrà essere rimisurato su un rapporto collegato fin dall’origine con la riparazione e il risarcimento, le quali, perciò, non sono un terzo binario, come nelle proposte avanzate in altri ordinamenti o anche nel dibattito penalistico (pene/misure di sicurezza/riparazione). Non è un terzo binario la riparazione, accanto alla pena e alla misura di sicurezza: è proprio dentro alla pena stessa, è alla sua base epistemologica. È la sanzione penale che nasce come penale in quanto non ci sono o non sono sufficienti la riparazione (dell’offesa) o il risarcimento (del danno).
Non so se sia praticabile per tutti i reati o per tutti gli autori. Mi rendo conto di quante obiezioni possano essere portate a questa idea, ma se uno vuole addurre inconvenienti, non comincia mai. Io vorrei che si cominciasse, invece.
Vi faccio adesso soltanto un esempio, molto tecnico, quasi da avvocato. Prendiamo il rapporto tra la confisca per equivalente e il sistema penale vigente. La confisca per equivalente è concepita come confisca del profitto in diritto penale. È una sanzione che si aggiunge alle altre sanzioni e che non ha a che vedere con la persona offesa, perché se il profitto è il prodotto di un reato che ha danneggiato corrispondentemente una vittima, non è che lo Stato dice: "Il profitto lo dai alla vittima”. Non è così. Me lo dice eccezionalmente in qualche caso (usura, etc.), come, per es., nell’articolo 19 del decreto legislativo 231 del 2001 (sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), dove c’è scritto: "Nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato”. Ma, a parte questo caso specifico, e pochi altri, la legge non me lo dice in generale, quando questa dovrebbe, invece, essere la regola generale. Cioè lo Stato non si avvantaggia di questo profitto che incassa, lo dà alla vittima. La vittima deve essere più tutelata da questo istituto.
Non è che lo stato moltiplica le sanzioni e la vittima rimane attaccata a una sua eventuale azione civile separata per chiedere, su un binario parallelo, il risarcimento.
È bello questo articolo 19, perché la confisca del profitto va collegata sicuramente al danneggiato o alla persona offesa. E allora abbiamo un istituto che non è semplicemente un moltiplicatore di sanzioni, in una follia sanzionatoria diversificata senza razionalità, ma acquista una razionalità che trae dal fondamento stesso della sanzione, la quale, se non c’è riparazione o risarcimento, sarà di un tipo, ma se invece c’è stata riparazione, non può che essere diversa. L’idea è che, alla base dell’intervento penale/punitivo vi è l’insufficienza degli altri strumenti, ma se invece gli altri strumenti ci sono, la risposta penale dovrà essere molto diversa o non esserci affatto.
Di qui, la valorizzazione degli istituti della non punibilità, che nel sistema già sono presenti.
Per quanto riguarda, infine, la nuova concezione di proporzione, andrebbero ripensate anche le diverse scale verticali e orizzontali nel concetto di proporzione. Se ipotizziamo che la pena effettiva, di fatto, non sia che poco più di vent’anni anche in caso di ergastolo non ostativo (questa è la pena concreta che si sconta, se si seguono i dettami della buona condotta carceraria) e se partiamo da questo massimo realistico, credo si possa costruire tutta una diversa razionalità delle cornici edittali, partendo da qui, dal massimo delle pene più gravi, "a scendere”, e non dal raddoppio del valore dei beni offesi dal reato, con sanzione duplicante quel valore nell’infliggere un male aggiunto. Questo oggi è un tema, questo sì, di un nuovo codice penale. In effetti è difficile partire solo da un pezzo, quando tutto il resto è sgangherato, mi rendo conto.
Probabilmente, solo un nuovo codice potrebbe consentire una ragionevole introduzione di un progetto di questo tipo. Però, se uno comincia a vedere l’orizzonte, forse ci può arrivare.
NOTE
NOTE
1) L’art. 56 del codice penale prevede, infatti, i casi di desistenza volontaria e recesso attivo. Il primo si verifica se il colpevole rinuncia volontariamente all’azione criminosa. In tal caso l’agente soggiace alla pena prevista per gli atti effettivamente compiuti, qualora questi costituiscano un reato diverso, mentre per il resto non viene più punito; il secondo si configura se il colpevole impedisce l’evento. Per questa ipotesi la pena è diminuita da 1/3 alla metà. Ai fini della loro efficacia, desistenza e recesso devono realizzarsi volontariamente, ovvero senza l’intervento di fattori esterni, quali, per esempio, la resistenza della vittima, oppure il sopraggiungere della polizia.
2) Il dolo eventuale è la concreta rappresentazione di un evento probabile, con sicura adesione al suo verificarsi, anche se è un risultato indiretto della propria condotta e il soggetto non lo desidera, ma lo accetta come prezzo per realizzare un altro obiettivo; mentre la colpa cosciente consiste nella rappresentazione dell’astratta possibilità della realizzazione del fatto accompagnata dalla fiducia, anche se non sempre dalla certezza, che in concreto non si verificherà. La distinzione tra le due ipotesi è particolarmente importante, come dimostra la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione penale, nei casi di incidenti automobilistici causati da guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
3) Cioè, errore di diritto, errore che cade su norme giuridiche, e consiste nell’ignoranza o nella falsa conoscenza della norma che ha determinato la volontà del soggetto. Nell’ambito del diritto penale, prima dell’intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 364 del 1988, l’errore sulla legge penale era assolutamente irrilevante, mentre ora, in conseguenza di questa pronuncia, esso è scusabile, con la conseguente esclusione della punibilità, qualora derivi da ignoranza inevitabile.
4) La cornice edittale è il limite massimo e minimo di pena che viene espresso dalla norma penale come sanzione per aver commesso il reato. Il giudice applica la pena entro i limiti della cornice edittale.
5) L’art. 133 c.p. prescrive: "Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:
a) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione;
b) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
c) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:
a) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo
b) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
c) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
d) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.
6) Secondo la voce "delitto” dell’enciclopedia on line Treccani.it:
"Il codice Rocco, sulle orme del codice Zanardelli del 1889, pone alla base della qualificazione del fatto di reato la distinzione tra i delitti e le contravvenzioni. La dottrina si è a lungo impegnata nella ricerca di un criterio sostanziale su cui fondare tale distinzione: Beccaria, per esempio, considerava delitti i reati offensivi della sicurezza pubblica e privata, coincidente con l’integrità dell’insieme dei diritti di natura, i cosiddetti "mala in se”; Impallomeni li riteneva offensivi delle condizioni primarie ed essenziali del vivere civile. L’insuccesso dei diversi tentativi di individuare un principio ontologico-sostanziale sulla base del quale distinguere tra le due forme di reato ha infine indotto la dottrina tradizionale ad abbandonare i criteri qualitativi a favore di criteri quantitativi, quale quello della maggiore o minore gravità del reato. Il codice Rocco ha adottato, invece, un criterio di distinzione di tipo formale, in base al quale la differenza tra delitti e contravvenzioni è legata al tipo di trattamento sanzionatorio previsto. In tal senso, l’art. 39 c.p. stabilisce che i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite, in particolare dall’art. 17 c.p., che dispone per i delitti la sanzione dell’ergastolo, della reclusione o della multa e per le contravvenzioni la pena dell’arresto e dell’ammenda. Il criterio distintivo indicato è inoltre di facile individuazione all’interno della sistematica del codice penale, il quale divide rigorosamente i delitti dalle contravvenzioni dedicando a queste il terzo libro, a quelli il secondo. La distinzione è poi di notevole importanza sotto il profilo della disciplina da applicare: rispetto all’elemento psicologico, le contravvenzioni sono punite indifferentemente, a titolo di dolo o di colpa, mentre i delitti sono puniti solo a titolo di dolo, salvo le ipotesi di responsabilità colposa, preterintenzionale od oggettiva espressamente previste dalla legge; il tentativo (art. 56 c.p.) è ammesso soltanto per i delitti; alcune circostanze del reato sono applicabili soltanto ai delitti (per es., art. 61, co. 3, 7, 8, c.p.); i reati commessi all’estero e punibili nel territorio dello Stato (art. 7 c.p.) sono solo delitti. Ulteriori distinzioni ineriscono la materia dell’abitualità, delle misure di sicurezza, dell’oblazione, nonché rilevanti profili del diritto processuale penale.
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