Recensione di Thomas Piketty, Le capital au XXIe siècle, Seuil 2013.
Tutti quelli che guardano all’economia e alla società dal basso, dal punto di vista di quelli che stanno peggio, si occupano e preoccupano delle diseguaglianze, soprattutto da quando la condizione di chi sta peggio -della metà, dei due terzi che stanno peggio- ha cominciato a peggiorare in assoluto, non solo relativamente a chi sta meglio. I lettori di "Una città” saranno anche stufi di leggere di coefficienti di Gini in salita, anche nell’Europa del Nord, che è la regione più egualitaria del mondo, di attese di vita diverse per classe sociale, di poveri che finanziano le pensioni dei ricchi. Il libro di Piketty (già tradotto in inglese da Harvard, di prossima traduzione in italiano) fa qualcosa di più del misurare le diseguaglianze. Con un lavoro di ricostruzione innovativo nelle fonti e senza precedenti nell’ampiezza, ha rimesso la storia nell’economia e l’economia nella storia. Sulle fonti, come osservano i recensori più autorevoli (Krugman sulla "New York Review of Books”, tra gli altri) l’uso delle dichiarazioni dei redditi a fini fiscali, disponibili per un secolo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ha consentito di valutare i redditi e il capitale anche per l’1%, per l’1 per mille, più alto, con risultati sconvolgenti. Nell’Europa del 1910, come negli Stati Uniti del 2010, l’1% più ricco incassa il 20% del totale dei redditi; il successivo 9% il 30% del totale: in tutto il 50% del totale. Negli anni 70 e 80, in Scandinavia, l’1% più ricco incassava il 7% del totale; il 9% successivo il 18% del totale: in tutto il 25%. È una bella differenza, no? Eppure stavano sullo stesso mercato globalizzato. I dati francesi sulle tasse sulla proprietà terriera, consentono di arrivare al settecento. Piketty è riuscito a dare l’andamento nel tempo del rapporto tra capitale e reddito dalla Belle époque ad oggi, mettendone in luce il grande mutamento: un dimezzamento, in pratica, nel periodo 1930-1970 (quando, come dice De Cecco, i soldi si usavano per produrre e non solo per fare altri soldi). Dagli anni 70 in poi il rapporto capitale/reddito è tornato a salire fino a raggiungere negli Stati Uniti -e in Italia, non nell’Europa settentrionale- i livelli dell’inizio del secolo scorso. Sono tornate a salire la concentrazione e la ereditarietà della ricchezza e quindi è cresciuta la disuguaglianza e diminuita la mobilità sociale, non solo in Italia e in Europa, ma anche negli Stati Uniti, che siamo abituati a pensare mobili, non sempre con gli stessi ricchi e ricchissimi, come invece è.
Non faccio una recensione, che richiederebbe un accurato controllo delle fonti e sarà il risultato complessivo delle letture di molti professionisti. Se Krugman parla di "magnifica, travolgente, meditazione sulla diseguaglianza”, di "libro che cambierà il modo in cui pensiamo la società e facciamo economia” (speriamo), di "rivoluzione”, non vi meraviglierete che anche un uomo della strada come me sia un po’ colpito. Colpito e confortato, direi; perché convinzioni, conoscenze parziali proprie, si collocano bene nel nuovo quadro generale. Posso solo aggiungere che il libro è scritto per essere capito; e si capisce. Le definizioni sono chiare e vengono ripetute quando vengono usate; i riferimenti storici, e letterari, sono frequenti.
Non che Piketty sia solo ad occuparsi di povertà e diseguaglianze. In Francia c’è un nutrito gruppo di economisti che lavorano su questi temi, come del resto in Inghilterra e negli Stati Uniti. Se si legge in rete "Social Europe” si scopre un intero universo. In Italia Maurizio Franzini ha pubblicato per la Bocconi Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)acettabili, che è molto convincente; e sconfortante. Il contributo più importante, per me, di Piketty è la messa in luce del cambiamento. Siamo sommersi da commenti che giustificano ogni nefandezza col mercato; che ci spiegano che siamo nel migliore dei mondi possibili. Ricordarsi che le cose vanno diversamente in posti diversi, per definiti motivi; che in passato sono andate molto diversamente; che potrebbero andare diversamente in futuro, è un vero sollievo.
Eguaglianza, merito ed eredità
Se è difficile controllare il complesso dei dati di Piketty, soprattutto per il lontano passato e per le fonti non universalmente o facilmente accessibili, è invece facilissimo controllare il presente, o precisarlo, dato che un libro generale prende in esame, per forza, solo indicatori aggregati. Non c’è che da scegliere qualche aspetto che colpisce di più e cercare le conferme o i dettagli.
Ho cominciato con le tasse di successione.
Sono importanti le tasse di successione? Per chi tiene all’uguaglianza dei punti di partenza, indispensabile se si vuole una qualche mobilità sociale e una pur parziale difesa del merito individuale, certamente sì. È chiaro che se le aziende, le case, i palazzi, i soldi, molti soldi, sono totalmente ereditabili, il merito perde senso. Si può solo fare a gara tra dipendenti, senza contare il vantaggio dei ricchi anche nella formazione per il lavoro. Negli anni 70, negli Stati Uniti l’aliquota più alta della tassa di successione era al 79%; in Inghilterra all’80% (per un paio d’anni arrivò all’85%). Nel trentennio reagan-thatcheriano l’aliquota più alta è scesa al 50% negli Stati Uniti e al 40% in Inghilterra. In Francia e in Germania, subito dopo la guerra, quando è probabile che la necessità di ricapitalizzare contasse più dell’uguaglianza, era tra il 15 e il 20%. Negli ultimi decenni si è adeguata al livello inglese, al 40%. E in Italia? Come è noto Berlusconi l’abolì totalmente, anche per i più ricchi. Prodi la reintrodusse, sopra una quota esente. È al 4% per gli eredi diretti (figli, coniuge); al 6% per gli altri parenti; all’8% per gli estranei. Come meravigliarsi che l’Italia sia più diseguale del resto dell’Europa, al livello degli Stati Uniti, dove è bassissima la tassa sui redditi?
Si può ritenere eccessiva l’importanza che Piketty attribuisce al sistema fiscale per diminuire le diseguaglianze. Certo abbassare quasi a zero la tassa di successione è un contributo notevole ad aumentarle. Siamo un paese che non solo non tassa i patrimoni, la ricchezza totale, come vorrebbe Piketty, ma non tassa neppure la casa (o finge di non tassarla), come gli Stati Uniti e l’Inghilterra fanno, e non tassa neppure il passaggio dei patrimoni. Tassiamo in modo controllabile solo il lavoro dipendente, in quanto le tasse le versano le aziende come sostituto d’imposta.
Se si vanno a guardare in rete i dettagli contemporanei, per gli Stati Uniti si è sommersi dalla pubblicità dei consulenti che vogliono spiegarti come eluderla la tassa, con modalità assicurative, con donazioni benefiche, ecc. Ma, se non vuoi pagare devi almeno fondare università, finanziare la lotta all’Aids, arricchire le compagnie d’assicurazione o gli avvocati e i commercialisti.
In Germania invece, che pure ha un coefficiente di Gini molto alto per i patrimoni, colpiscono i dettagli. L’aliquota minima, al 7%, è più alta della nostra per i parenti oltre il secondo grado. E sale gradualmente fino al massimo. Insomma i paesi emblematici del neoliberalismo tasse sui patrimoni ne hanno; noi no. Faremmo bene a metterle? Certo disturberemmo la trafila della rendita sulle case; e sarebbe un fatto positivo. Forse disturberemmo anche la trasmissione familiare delle aziende industriali -non Del Vecchio, ma le aziende piccole e piccolissime. Dovrebbero cercare modi non dinastici di sopravvivenza. Non è detto che sarebbe un male.
Capitale umano
Nel grafico della composizione del capitale negli Stati Uniti, che parte dai primi dell’800, tra le altre fasce variamente retinate per capitale fondiario, industriale, finanziario, prima del 1861, c’è una larga fascia scura, che poi rapidamente si azzera, cambiando di molto la composizione complessiva. Che cos’è? È il capitale umano, in senso proprio non metaforico o virtuale: gli schiavi.
Negli stati del sud la concentrazione del capitale era, ed è rimasta, più alta che al nord. Del resto la concentrazione della proprietà della terra è forse una delle premesse della nascita del sistema schiavistico. Sull’altro significato di capitale umano, cioè sulla capacità di lavoro tecnico, specializzato, professionale -che, al momento, è una delle bolle più pericolose negli Stati Uniti, perché si tratta di capitale preso a prestito, di debiti d’onore difficili da restituire col livello attuale delle retribuzioni- Piketty scherza un poco. Milton Friedmann chiamava la formazione a debito rischio di schiavitù parziale. Noi faremmo bene a toglierci l’abitudine di usare il termine e a prevenire la formazione, nella realtà sociale, di una fascia di schiavi parziali (che non includerebbe i figli dei ricchi, naturalmente) mantenendo la formazione pubblica e gratuita.
Francesco Ciafaloni recensisce "Le capital au XXIe siècle" di Thomas Piketty
Una Città n° 212 / 2014 Aprile
Articolo di Francesco Ciafaloni
Tradotto da -
Disuguaglianze...
A partire dal volume di Thomas Piketty, un appunto di Francesco Ciafaloni su povertà, ricchezza e merito, con una postilla sul “capitale umano”, in senso non metaforico.
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