Stranieri e disoccupati
Il IV Rapporto annuale sugli immigrati nel mercato del lavoro italiano (vedi link in fondo) include i dati del 2013, i primi che tengano conto pienamente della seconda ondata recessiva, che ha colpito gli stranieri (e gli italiani) ben più duramente della prima, e non risentano troppo delle correzioni del censimento del 2011. Il quadro fornito include i confronti con gli altri paesi europei sui flussi in entrata e in uscita e i tassi di occupazione ed è di estremo interesse. L’unico modo di cogliere la complicazione del quadro è consultare direttamente il Rapporto, perché il mondo è sempre un po’ più vario di come lo si immagina, se si disaggrega per regione, provenienze, condizioni familiari, età. In sintesi segnalerò le caratteristiche che mi hanno colpito di più, per importanza sociale e politica o perché rovesciano stereotipi e luoghi comuni.
Stranieri al lavoro
L’immigrazione in Italia nell’ultimo quarto di secolo è stata soprattutto per lavoro. Certo, i migranti, anche se arrivano da soli e da giovani, hanno poi l’abitudine di richiamare mogli (o mariti) e figli; oppure di sposarsi e di fare figli qui. La modesta ripresa della natalità in Italia di qualche anno fa era dovuta ai figli delle straniere (il 28% di tutti i neonati, a Nord) poi diminuiti perché la crisi colpisce tutti; e anche le straniere invecchiano. Perciò il tasso di occupazione degli stranieri in età di lavoro (15-65 anni) è nove punti più alto di quello degli italiani, (67,1 contro 58,1) al momento della crisi, nel 2007. Nell’immediato la crisi colpisce gli stranieri meno degli italiani: la differenza resta immutata per un anno; poi comincia a diminuire. Nel 2013 è ridotta a 3 punti. Spero che nessuno sia troppo sorpreso dal maggior tasso di occupazione e dalla diminuzione: i migranti arrivano per lavorare; e i più fragili escono prima.
Credo sia meno noto che in altri paesi d’Europa il tasso di occupazione degli stranieri è molto più basso di quello dei cittadini: 60,7 contro 74,8 in Germania; 53,5 contro 64,8 in Francia, quasi costanti negli anni. Le politiche della cittadinanza (lo ius soli in Francia) o dell’accoglienza (le richieste di asilo in Germania) hanno consentito la presenza di molti migranti come persone, non come lavoratori, contro l’immagine che si tende ad accettare di un’Italia lassista, o generosa, contro un’Europa efficiente, o rigorosa. Anche i flussi raccontano una storia diversa dalla vulgata. Malgrado la crisi, il saldo migratorio italiano resta attivo grazie ai migranti stranieri. Quello dei cittadini italiani è invece negativo, in particolare dal Sud.
È notevole che, mentre l’aumento tra 2013 e 2012 della percentuale degli stranieri (anche giovani) in cerca di occupazione è più alta di quella degli italiani (24,9 -z, 30,6 -non Ue, contro 11,0 italiani) il numero assoluto dei lavoratori stranieri è aumentato nel 2013 (1,9% Ue, 0,5 -non Ue), mentre quello degli italiani è diminuito (- 2,4%).
Che gli stranieri continuino ad arrivare, anche se molti sono disoccupati, è una buona notizia. Siamo uno dei paesi più vecchi dell’Europa e del mondo. Di giovani capaci di lavorare -e di tenere insieme la società- avremo estremo bisogno. Purtroppo gli equilibri sociali e demografici sono molto importanti ma si manifestano nel lungo periodo. Nel breve c’è la concorrenza tra disoccupati.
Fino a qualche anno fa si poteva essere sicuri che, per folli che fossero le leggi, il governo avrebbe regolarizzato i migranti perché ne aveva bisogno come lavoratori. Oggi la tendenza a buttarli a mare è ben presente e politicamente pervasiva. Fa parte dei venti di guerra che soffiano sull’Europa. Nessuno ricorda che il basso livello di attività in Italia è dovuto alla delocalizzazione delle aziende fino ai confini della Ue, e anche oltre; fino alla Moldova, all’Ucraina, da cui provengono anche molti migranti; fino alla instabile e russa Transnistria, come ha documentato la trasmissione di Raitre Report domenica 2 novembre. L’avversione ai migranti, anche europei, sarà una delle strade della involuzione a destra in Europa.
Vario è il mondo
Alcune differenze per paese sono quelle ovvie: in Germania diminuiscono sia i cittadini che gli stranieri in cerca di occupazione; in Francia e in Spagna solo gli stranieri. In Germania si entra e si esce poco.
In Italia, come ci si aspetta, gli stranieri sono molto rari tra i dirigenti (0,3%), rari tra gli impiegati (7,4% contro 34,8% degli italiani) e frequenti tra gli operai (78,1% contro 37,1% degli italiani). Sono in percentuale la metà degli italiani tra i lavoratori autonomi. Tra il 2007 e il 2013 gli stranieri occupati sono 853.504 in più; gli italiani 1.655.084 in meno. L’aumento degli occupati stranieri è concentrato nei servizi alla persona (589.622), nell’industria (83.513), nell’agricoltura, nel commercio, nelle costruzioni, molto colpite dalla crisi.
La crescita degli occupati stranieri è quasi lineare negli anni, con la ovvia concentrazione già illustrata per settori. Anche la ripartizione per provenienza è esattamente quella che ci si aspetta. Moldave e filippine lavorano al 68,8 e 65,5% nei servizi alla persona; marocchini, cinesi e indiani lavorano nell’industria; indiani e pakistani in agricoltura. Le catene migratorie, il luogo di arrivo, la domanda, determinano percorsi definiti e prevedibili, al di là dei pericoli e della estrema variabilità delle circostanze dell’arrivo. I lavoratori stranieri sono con noi per restare; rappresentano una parte importante delle competenze, della flessibilità, di cui si parla tanto e a sproposito. Certo non contribuiscono a tenere alto il costo del lavoro. Faranno anche concorrenza in alcune aree di confine. Ma di loro, delle loro storie, dei loro rapporti col mondo, con le sue varietà, le sue tragedie, non ci libereremo. Ma non mancheranno parti politiche che li useranno come nemico.
Attenti solo a non accettare le identità di comodo che gli costruiamo addosso.
Vi ricordate gli albanesi? Le navi stracolme di persone bloccate poi sui moli; gli annegamenti; la criminalità? Bene. Guardate la composizione delle famiglie per provenienza. Gli albanesi sono al 60% coppie sposate con figli: la famiglia tradizionale; quella che nelle città del Nord non esiste più.
Riflettiamoci.
I dati:
http://goo.gl/ceSzEo
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