Sono passati quasi 40 anni dalla sua esperienza come primo presidente della Regione Lombardia. Che cosa ne pensa, che frutti può aver dato, quali erano le aspettative e qual è la situazione in cui ci si trova oggi?
Beh, io credo che sia cambiato quasi tutto, e questo, tra l’altro, pone un problema anche alla Costituzione. Quello che ha cambiato tutto è stato l’avvento del glocalismo, cioè il fatto che il rapporto del locale con ciò che non è locale, non è più con il nazionale, ma è col globale o, nel caso europeo, col continentale. Quindi, l’idea dei costituenti, che era di fare le regioni sostanzialmente come una soluzione di decentramento dello Stato, ormai irreversibilmente centrale per le scelte del 1861, non ha più molto senso. Forse ha senso amministrativamente, può riguardare l’organizzazione delle prefetture, ma certo non lo ha per quanto riguarda la vera sostanza del decentramento, che è politica, perché riguarda il processo democratico nella direzione che le è naturale, cioè dal basso verso l’alto. È chiaro che oggi il tema dell’articolazione della volontà politica nelle diverse parti del Paese e quindi nelle sue diversità, ai fini di una ricomposizione ad unità nella dimensione nazionale, non è più il tema dominante, in quanto fuori dalla dimensione locale, per il caso della Lombardia, ma più in generale della Padanìa, cioè del grande nord, si guarda alla dimensione che la trascende, verso l’Europa o verso il mondo. Questa novità assoluta sta travolgendo la certezza, consolidata da Westfalia fino a oggi, che lo stato nazionale, e quindi un popolo, si definiva sulla base di confini, cuius regio eius religio, non della sociologia. Gli italiani sono stati creati dal Risorgimento, e da tutto quello che ha fatto seguito, fino al limite di far diventare italiani gli altoatesini a seguito di una guerra, o i valdostani, salvo poi riconoscere a malapena quelle differenze nella Costituzione del Secondo dopoguerra con le regioni a statuto speciale. Oggi però la dimensione della differenza, essenzialmente fra il nord e il sud dell’Italia, è diventata una dimensione talmente penetrante, da spingere a costituirsi in polis sostanzialmente diverse.
Quindi anche le differenziazioni regionali possono saltare o diventare fittizie…
Teniamo presente che, in fondo, la tripartizione dell’Italia fra nord, centro e sud, ormai scricchiola, perché l’alta velocità ha reso Firenze nord. Se lei glielo chiede, i fiorentini non si sentono più "del centro”, che era, tra l’altro, una connotazione più che altro politico-ideologica, perché il centro era rosso, e anch’essa oggi è venuta meno. La geopolitica fa di Firenze una città che può gravitare ugualmente su Roma o su Milano, ma che progressivamente sta scegliendo di gravitare su Milano, su Torino o su Bologna. A trenta minuti di distanza è chiaro che i rapporti tra Firenze e Bologna sono cambiati radicalmente. Tutto è cambiato moltissimo.
Ovviamente anche l’Europa ha contribuito grandemente al cambiamento…
Certamente. In questo contesto di cambiamenti, che chiamerei ontologici, anche se la parola non si può usare, nel senso proprio dell’essenza della realtà socio-politica, è cambiato anche il quadro istituzionale. Molti dei problemi la cui regolazione era affidata allo stato centrale sono ormai affidati alla dimensione europea. E qui si incontra un altro problema, che è un po’ complicato da spiegare brevemente, ed è che il glocalismo non ha soltanto cambiato la morfologia, la geografia della politica, ma ne ha cambiato anche il funzionamento, l’organizzazione del potere. In un’organizzazione politica costruita sui limiti territoriali, il confine era il punto ad quem per il potere del principe.
Oggi non è più così, perché, mentre il controllo del territorio è andato spostandosi, com’era fatale, verso i poteri locali, il controllo delle grandi funzioni, che sono quelle che innervano la vita politica ed economica, si è spostato, in molti casi, a livello globale. Basta pensare al trasferimento delle attività produttive, alla logica dei costi compar ...[continua]
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