Alcuni anni fa ti sei trasferita in campagna e hai cominciato a scrivere della felicità dell’orto. Puoi raccontare?
Quando si scopre qualcosa si ha voglia di raccontarlo. Quando sono andata a vivere in campagna, una quindicina di anni fa, ho cominciato a vivere in altro modo, ad avere idee diverse, a provare sensazioni sconosciute; è stato qualcosa di nuovo che non avevo mai raccontato. Il mio primo libro è nato dal desiderio di raccontare questo e non avevo nemmeno la certezza che fosse un libro, perché era talmente diverso da quanto avevo fatto prima, che quando poi l’ho scritto e mandato all’editore dicevo: "Mah, cosa ne sarà?”, non mi sentivo sicura che l’editore avrebbe voluto una cosa così diversa. Uno scrittore spesso parte da questo impulso di raccontare quello che vive, che pensa o che scopre, i pensieri che sente nuovi o freschi. Insieme a questo c’era anche il desiderio di far conoscere questa pratica, questo modo di vivere, questo rapporto con la natura che può dare tanta gioia. Infatti con il primo libro volevo raccontare soprattutto la felicità di questo incontro, volevo che fosse un libro capace di dare qualcosa di buono alle persone: un po’ di felicità, che le facilitasse nell’acquisire gli strumenti per trovare per sé quella gioia. Molte persone mi hanno poi scritto che dopo aver letto il libro hanno voluto fare anche loro un orto, mi hanno raccontato di come fosse stato bello per loro farlo, di come gli avesse cambiato in meglio la vita. Alla presentazione del libro a Milano c’era quella che sarebbe poi diventata la direttrice di Gardenia e mi chiese poi di fare una rubrica che si intitolò proprio "Apprendista di felicità”: l’idea dell’orto, del giardino, della natura come un apprendistato di felicità. In un mio librino, Le vie dell’orto, ho pensato a questo diritto alla felicità, che è il diritto a qualcosa di molto semplice, qualcosa che non è tanto interessante da raccontare agli altri ma che a te fa molto bene.
Il contatto con la natura attenua il dolore dell’io, dell’ego, ti fa sentire profondamente parte di qualcosa. Uno si sente molto connesso alle cose. Fritjof Capra, che è stato un paladino dell’orto nelle scuole, dice proprio che l’orto ti connette, o riconnette, alla rete della vita, ti fa uscire dall’isolamento, questa forma molto metropolitana di infelicità.
Com’è nata l’idea di fare un sito sugli orti nelle scuole?
L’idea è nata dopo la pubblicazione de L’orto di un perdigiorno, uscito nel 2003. Gianfranco Zavalloni, dirigente scolastico fin da che era maestro elementare si adoperava per creare orti nelle scuole -figlio di contadini e ci teneva molto (scomparso il 19 agosto del 2012)- per caso vide il mio libro in una libreria di Trento, lo comprò, lo lesse e gli piacque molto. Così mi cercò e mi propose di presentarlo a un gruppo di maestre. "Mi piacerebbe -disse- che le maestre facessero l’orto con i bambini nello spirito del tuo libro”.
Oltre a raccontare il mio apprendistato di ortolana, avevo messo anche alcune riflessioni, se vuoi di filosofia di vita, idee sul consumo, la società, la forma economica in cui viviamo, sul consumare meno, sulla vita sobria, sul viaggiare di meno.
Tutti i miei temi di oggi lì c’erano già: la serenità, la pace, ma soprattutto il trovare quella forza, quella libertà interiore nel produrre il cibo che poi ti immunizzano un po’ dal consumismo compulsivo. Direi quasi l’orto come educazione. In realtà a quest’idea dell’orto a scuola non avevo mai pensato e mi sembrava proprio una bella cosa, ma è finita lì.
Io però ho continuato a pensarci e a un certo punto mi sono come autonominata ufficio stampa dell’orto. Mi sembrava di poter dare un contributo nella comunicazione, nel diffondere idee. All’inizio avevo pensato: "Potrei parlarne con il sindaco, con le istituzioni...”, poi mi sono detta: "No, mi manca proprio il carattere giusto. La cosa che posso fare io, con i miei mezzi, è aprire un sito internet, che non è particolarmente costoso e ...[continua]
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