Vincenzo Colangeli, dirigente medico dell’Ospedale Sant’Orsola di  Bologna, è specialista in malattie infettive.

Vorremmo fare il punto sulla infezione da Hiv e anche sulla malattia conclamata. Negli ultimi anni si ha la sensazione che la malattia si sia cronicizzata, che l’aspettativa di vita sia cresciuta. Qual è la situazione da un punto di vista epidemiologico?
Facciamo un discorso un po’ generale. Innanzitutto stiamo parlando di un’infezione che si è manifestata agli inizi degli anni Ottanta e che, naturalmente, ha avuto nel tempo un’evoluzione. Quello che ha stupito maggiormente, a mio avviso, sono stati i notevoli progressi fatti in tempi rapidi sia nella conoscenza dei meccanismi patogenetici dell’infezione che nel trattamento specifico. In quest’ultimo caso si è trovato, probabilmente, una comunione di intenti tra il dramma planetario creato dalla malattia e gli interessi delle case farmaceutiche che hanno visto in questo settore un possibile e duraturo sbocco economico. La stragrande maggioranza delle persone con infezione da Hiv per mantenere una vita normale deve assumere, al momento, la terapia specifica per tutta la vita. Il costo medio annuo del trattamento è di circa 9-10.000 euro a persona, con variabili legate alle classi di farmaco utilizzato e alle comorbidità.
La cosa che ha funzionato meno bene, dopo l’approccio allarmistico dei primissimi anni, è stata quella di relegare il problema a determinate popolazioni, come se non riguardasse la salute di tutti ma solamente di qualcuno che aveva avuto o continuava ad avere comportamenti "devianti”. Un atteggiamento di questo tipo da parte delle istituzioni preposte a interventi di sanità pubblica ha creato enormi danni che si sono poi manifestati in maniera eclatante nei periodi successivi. Negli anni passati ci sono state campagne conoscitive, ma il tutto rimaneva relegato al concetto di "gruppi a rischio” e, quindi, si tendeva a sminuire il problema poiché marginale alla società "civile”. Ricorderete tutti, ad esempio, le numerose e qualche volta faziose polemiche seguite al tentativo di diffondere un depliant "ufficiale” con la figura di Lupo Alberto che pubblicizzava e suggeriva di implementare l’uso del profilattico come mezzo preventivo alla diffusione dell’infezione che già allora si era palesemente evidenziata come malattia a trasmissione sessuale.
Questo atteggiamento disinformativo ha portato, inevitabilmente, all’aumento dei casi di sieropositività nella popolazione generale. Attualmente una grossa fetta di persone sieropositive non sa di esserlo, poiché nessuno ha detto loro come poteva avvenire il contagio. In Italia si stimano circa 160.000 sieropositivi con un percentuale di circa 20-25% di persone che non sa di aver contratto l’infezione. Significativa è anche l’età media delle persone al momento della notifica che si aggira attorno ai 40 anni. Si tratta, quindi, di una popolazione sessualmente attiva che, in assenza di informazioni, potrebbe continuare inconsapevolmente a trasmettere l’infezione.
Il tutto porterà, come peraltro sta avvenendo, a un avvicinamento ai servizi sanitari specialistici tardivo, cioè quando si presenta una sintomatologia conclamata o c’è un sistema immunitario già compromesso.
Questo è il grande problema del sommerso riguardante l’infezione dell’Hiv.
Da sempre si è cercato di comprendere quali potevano essere le problematiche specifiche cercando di raccogliere dati conoscitivi soprattutto sull’epidemiologia dell’infezione.
Il Coa (Centro Operativo Aids) dell’Istituto Superiore di Sanità, istituito dal 1985, fino a qualche anno fa raccoglieva in un Registro Nazionale solamente i casi di notifiche di Aids, cioè di malattia conclamata che vuol dire un’infezione da Hiv legata alla presenza di una serie di patologie specifiche che in associazione fanno fare diagnosi di Aids. Le più frequenti e significative sono ad esempio la candidosi polmonare ed esofagea, la polmonite da pneumocystis, la toxoplasmosi cerebrale, il sarcoma di Kaposi, la tubercolosi, i linfomi. Quindi si cercava di stimare statisticamente solo questo: quanti erano i casi di Aids, quanti malati vivevano e quanti morivano, con tutte le relative sottoanalisi.
Un rilevamento di questo tipo nato in fase di emergenza si è rivelato inappropriato nel momento in cui sono arrivati i farmaci che ci hanno permesso di curare efficacemente l’infezione bloccando di fatto la progressione della stessa fino all’Aids. La svolta terapeuti ...[continua]

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