Poiché la rievocazione dell’affare Dreyfus, ormai paradigmatico, viene fatta ogni volta che si presenta un caso di ingiustizia, è stata fatta anche rispetto al nostro; diverse persone avevano citato il caso Dreyfus in nostro favore -Vincenzo Consolo, Oreste del Buono, Manlio Brigaglia e altri- motivate, oltre che dalla loro generosità, non certo da una qualche identificazione fra noi e Dreyfus, del tutto impropria, fastidiosa e, anche, pesante per qualunque imputato di qualunque tempo, quanto piuttosto dalla identificazione di se stessi con tutti quegli scrittori ed intellettuali che scesero in campo -e poi andarono a finire in tribunale, ebbero cause, furono condannati, come avvenne a Zola- per accusare l’ingiustizia, per battersi per la giustizia tradita dai suoi sacerdoti. E’ uscito, poi, un editoriale in prima pagina nel Corriere della Sera, di Chiaberge, che dimostrava quasi un eccesso di zelo nell’allontanare da noi quel paragone, visto che, in fondo, era chiaro che nessuno lo impiegava in modo troppo solenne o sacrilego. Ciò non toglie che questo paragone ai miei occhi appaia effettivamente come un sacrilegio che prego non venga commesso.
A parte il senso delle proporzioni -e dell’ironia anche- la ragione essenziale per cui quel paragone non andava fatto era che noi, a differenza di Dreyfus, non siamo ebrei. Quell’accusa così grave e, soprattutto, il rincaro di violenze, falsificazioni e mobilitazione sociale da cui fu accompagnata, trovò certamente il suo terreno di coltura nel nazionalismo, nello sciovinismo, nel militarismo di fine di secolo, ma, soprattutto, nella galvanizzazione dell’antisemitismo. Se lo schieramento di forze contro Dreyfus assunse proporzioni impressionanti, fu grazie all’antisemitismo: basta pensare alla rilevanza del ruolo assunto, in quella mobilitazione, dal cattolicesimo organizzato.
Tutto questo nel nostro caso non c’è. Ad esempio, noi imputati, ma anche gli altri che sarebbero stati imputati con noi e poi sono stati persi per strada, siamo degli italiani abbastanza tipici, siamo maschi, cattolici di formazione, veniamo da regioni diverse e così via: non c’è, non può esserci una molla, magari taciuta, profonda, che spieghi una specie d’irresistibile cospirazione per schiacciarci. Questa è la differenza fondamentale, ma ce ne sono, ovviamente, infinite altre. Ne citerò solo un’altra, per rispetto, se non altro, del senso delle proporzioni: Dreyfus fu giudicato da una corte marziale, con un dibattito segreto, con carte false (beh, le carte false esistono abbondantemente anche nel nostro processo; rispetto a questo, devo dire, ci sono addirittura delle similitudini: qui c’è una lotta fra Pomarici, i carabinieri, là c’è questo Esterhazy, un farabutto che si è giocato tutto a carte e che era il vero colpevole). E poi Dreyfus è un uomo che viene deportato all’Isola del Diavolo, nella Guyana, che viene tenuto incatenato al suo tavolaccio per tutta la notte, per anni, mentre noi siamo qui che facciamo un’intervista nella sala conferenze degli agenti di polizia penitenziaria organizzati in tre o più sindacati.
Quali sono invece i punti di somiglianza che rendono il paragone non del tutto fuori luogo?
Mentre noi, lo ripeto, non abbiamo niente, o quasi, che possa assimilare la nostra vicenda a quella di Drey-fus, trovo invece che i nostri nemici hanno molto in comune con i nemici di Dreyfus. E’ sul versante dei nostri accusatori e dei loro sostenitori che si ritrovano molti aspetti paragonabili a quelli della campagna volgarissima, piena di odio, di violenza e brutalità, che fu condotta contro Dreyfus per tanto tempo.
Provo a dire quali sono alcuni degli aspetti più impressionanti.
Uno è, ovviamente, l’accanimento di questa campagna: se uno prova a trasporre alla società civile gli stessi criteri in uso nelle aule di giustizia, si sorprenderà di trovare una contraddizione più forte di quella riscontrabile in una cattiva amministrazione della giustizia. In fondo, la giustizia ha un suo criterio interno, che dice in dubio pro reo e prescrive il favor rei: in una situazione di dubbio deve prevalere il favore nei confronti dell’imputato anche se colpevole; nei confronti della possibilità che una persona sia colpevole deve prevalere la possibilità che sia innocente. Questo è una specie di cardine di un’amministrazione umana dell ...[continua]
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