Marta Castiglioni, nata in Argentina, ma in Italia da vent’anni, è presidente della cooperativa di servizi di mediazione linguistico-culturale Kantara, di Milano. Sociologa e storica si è formata come psicoanalista e collabora con l’ambulatorio per immigrati del Naga di Milano.

Come hai iniziato ad occuparti di mediazione linguistico-culturale?
Sono arrivata in Italia nel 1976, dopo il colpo di stato del generale Videla. In Argentina lavoravo a Rosario, nell’Università, come ricercatrice e titolare di una cattedra che non esiste più, Realtà del Regionale. L’Argentina è uno stato fortemente centralizzato, tutto passa per Buenos Aires e io, che avevo una formazione storica e sociologica, credevo fosse importante un altro punto di vista, scoprire ciò che stava oltre la capitale. La mia esperienza come sociologa si è chiusa qui, nel 1981, con l’ultima ricerca che ho fatto sullo stato e la vocazione militare in Argentina. Tutte le cose che ho fatto e di cui mi sono occupata sono legate a percorsi della mia vita. Prima le ho vissute e poi le ho intellettualizzate. Anche il mio impegno nella mediazione linguistico-culturale nasce così. Prima sono stata immigrante, poi ho iniziato a riflettere sull’immigrazione. Dal 1988 ho cominciato a lavorare all’associazione Naga, che si occupa di assistenza sanitaria, perché, anche se lavoravo alla Lega per i Diritti dei Popoli e seguivo il processo sugli scomparsi italiani in Argentina, che si è concluso da poco, cercavo qualcosa, ero insoddisfatta.
Il processo mi impegnava totalmente, solo la fase istruttoria è durata più di dieci anni, per cui il fenomeno dell’immigrazione mi era estraneo. Debbo dire però che, arrivata in Italia, avevo sentito anche il bisogno di un’analisi e avevo iniziato a studiare a Padova, perché stavo iniziando ad interessarmi alla psicoterapia. Poi ho iniziato a collaborare presso il Naga, dove, nel 1989, abbiamo messo in piedi il primo corso per orientatori socio sanitari. E’ da questo lavoro che è nata l’idea della mediazione linguistico culturale. In altre parole, ho smesso di occuparmi dei morti e ho iniziato ad occuparmi dei vivi.
Quanto hanno influito cultura e storia personale nella tua formazione?
Moltissimo. E’ come avere dentro di sé tante parti diverse. Devi anche pensare che l’Argentina, pur con tutte le difficoltà che vive, è un paese realmente multiculturale, dove predomina il meticciato. Inoltre i miei nonni erano uno argentino e uno svizzero tedesco, quindi dentro di me convivono più culture.
L’esperienza psicoanalitica poi mi ha insegnato molto sull’ascolto, sul pensare per metafore, a dare importanza al pensiero mitico, all’irrazionale. E questo è di grande aiuto nell’accostarsi a persone di provenienza così diversa da quella occidentale. Comunque, quando ho fatto il primo corso al Naga ho cominciato a riflettere sul mio percorso di immigrante, e anche questo è stato molto importante. Ho iniziato a interessarmi al modo in cui altri paesi avevano affrontato il problema dell’immigrazione.
L’esperienza francese mi ha molto aiutato. In Francia, infatti, lo stato si è preoccupato assai prima che in Italia di dare a tutti i residenti il diritto di essere cittadini. Questa, che può sembrare una grande conquista di civiltà, in realtà ha determinato grandi ingiustizie, perché ha significato assimilare tutti alla cultura francese, costringendo gli immigrati a rinunciare alla propria differenza culturale.
Dalla seconda presidenza Mitterrand in poi i francesi hanno iniziato a preoccuparsi della differenza culturale, soprattutto con il crescere della seconda generazione, quella dei figli degli immigrati, e l’esplodere del disagio delle banlieues. Tuttavia, nemmeno questo è bastato, perché mentre ci si occupava degli immigrati non ci si preoccupava di sensibilizzare i francesi, e quindi il contrasto è rimasto. Il danno, anche se ridotto, è incancellabile. Oltre all’esperienza francese mi ha aiutato a riflettere l’esperienza del Naga, che si occupa di un primo fondamentale diritto mancato, quello alla salute. Nel 1987 non c’era neanche la legge Martelli, che comunque non riconosce il diritto alla salute. Da qui ho capito che il riconoscimento della differenza culturale e il diritto alla salute erano cose che dovevano procedere di pari passo, perché quando una persona immigra in un altro paese inizia a sentirsi straniera e il suo corpo diviene il luogo in cui, attraverso i sintomi, si manifesta la sofferenza, la dis-identit ...[continua]

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