Ludovico Albert, già insegnante, lavora al settore scuola del Comune di Torino. Con Piera Cerutti e Enrico Allasino ha realizzato una ricerca sulla dispersione scolastica a Torino, pubblicata da Bollati Boringhieri con il titolo Dispersi e ritrovati.

Tu ti sei occupato molto di dispersione scolastica e dei problemi che incontra chi, a distanza di anni dalla sua uscita prematura dalla scuola, vuol tornarci per conseguire il diploma. Puoi parlarci della situazione odierna a questo riguardo?
La nostra ricerca metteva in evidenza un fenomeno relativamente poco esplorato, cioè che la scuola superiore, da quando è diventata “di massa”, è una scuola della cosiddetta piena scolarità: entra il 95% dei giovani che hanno la licenza media. In uscita, con il titolo, siamo quasi all’80%, 75%. Quindi circa un quarto delle persone si perde. Il problema è che queste persone non si perdono subito, ma in genere restano dentro la scuola fino a 18 anni. Sono pochi, cioè, quelli che abbandonano la scuola dopo la prima bocciatura in prima superiore. La maggior parte di quelli che non conseguiranno il titolo, che andranno a lavorare con la sola licenza media, stanno dentro uno, due, tre, quattro, fino a sei anni, girando a vuoto. Magari passano da un liceo a un istituto tecnico, da un istituto tecnico a un istituto professionale, oppure nella formazione professionale, ma sempre secondo una scala di nobiltà: dalla scuola più nobile a quella meno nobile, più vicina al lavoro. Fatto è che molti di questi giovani restano a lungo parcheggiati a scuola: a questa conviene perché più clienti comporta più classi, e più insegnanti. Le scuole quindi li accettano, il che non vuol dire che se ne facciano carico; non è che questi, ripetendo la prima o la seconda superiore per due o tre volte, ottengano dei risultati.
Quella ricerca aveva messo in evidenza anche il fatto, perverso, che, se uno si sposta da una scuola a un’altra con un altro indirizzo, anche nel biennio, riparte da zero. Questo perché oggi, nel sistema scolastico, i passaggi avvengono tramite gli esami d’idoneità e per capire come funziona un esame d’idoneità basta pensare che ciascuno di noi, quand’anche laureato, sarebbe bocciato ad un esame di seconda superiore. Quella forma di certificazione, infatti, sancisce ciò che uno non sa, non valorizza ciò che sa. Per cui se mi chiedono la data della battaglia di Canne o di fare un’equazione di 2° grado... Quello che mi viene chiesto è la congruenza tra il mio sapere e neanche uno standard definito, ma un programma fatto in quella particolare materia da quell’insegnante, quell’anno. E’ chiaro che a fronte di una domanda scolastica il mio sapere crollerebbe. Immaginiamoci per soggetti che trovandosi di fronte a un esaminatore sono pure intimiditi perché sono già stati bocciati una, due, tre volte, e quindi non è che siano propriamente così fiduciosi nelle loro capacità, nelle loro competenze.
Per queste persone, quella forma di certificazione che li fa ripartire da zero, è di nuovo una perdita di tempo. Quindi si pone il problema, e a maggior ragione oggi con l’obbligo formativo a 18 anni, che nei tre canali formativi, e cioè la scuola, la formazione professionale, l’apprendistato, si creino delle possibilità di ingresso, a partire dal massimo di valorizzazione dei percorsi che le persone hanno fatto, della loro storia di acquisizione di competenze.
La forma dell’esame certamente non funziona; bisogna pensare a delle formule differenti.
A che punto siamo?
Oggi esistono delle ipotesi e delle sperimentazioni, che però sono ancora poca cosa. Intanto in alcuni luoghi si fanno già i bilanci delle competenze, che partono per esempio dal racconto della storia di vita delle persone.
Allora sarebbe bene che prima di trovarsi all’esame di fronte a un insegnante dall’altra parte di un tavolo, il nostro “alunno” venisse affiancato da una persona, che usa un linguaggio congruente con quello dei cosiddetti esaminatori, che discuta con lui, gli faccia anche raccontare quali sono le cose che ha fatto.
Una specie di mediatore culturale...
Sì. Senza una mediazione culturale di questo tipo diventa difficile raccontare la propria storia perché ormai i linguaggi e le categorie mentali sono differenti, uno non sarebbe neanche in grado di capire quello che gli altri vogliono sapere.
Anche perché spesso lui stesso non sa cosa sa. Questo capita anche a chi ha strumenti per ragionare su se stesso, immaginiamoci in soggetti a medio ...[continua]

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