Da Lampedusa al Brennero - page 37

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derato di persone -cosa che non riusciamo
mai a fare. Dell’anno dell’Emergenza Nor-
dafrica ricordo che non riuscivamo mai a
chiudere la porta.
E poi che non bisogna mai dar le cose per
scontate. Al nostro ritorno da Lampedusa,
dopo aver firmato la Carta di Lampedusa,
abbiamo parlato coi ragazzi dei loro diritti e
soprattutto dei confini, di Dublino, ecc. Eb-
bene, la maggior parte sosteneva che i con-
fini e le frontiere assolutamente servono!
Puoi immaginare il nostro spaesamento, la
sorpresa al pensiero che un ragazzo afghano
potesse essere favorevole ai confini. D’altra
parte, lungo il confine tra Afghanistan e Pa-
kistan passa di tutto: armi, droga, eccetera.
Se tu parli di confini partendo dai diritti non
vai da nessuna parte, tanto più che loro non
sono esperti di politica internazionale. Molti
non si rendono neanche conto di come sono
arrivati e di che tipo di diritti possano chie-
dere. Spesso poi i nostri immaginari sono ri-
vendicativi: loro sono i poveri della terra che
hanno il diritto di essere accolti, perché tutti
ci vogliamo riconoscere nei valori universali
di solidarietà, di accoglienza e di condivisio-
ne dei popoli, mentre magari molti di loro
aspirano al più bieco liberismo e non fareb-
bero entrare nessun altro!
Cecilia.
Discutono anche tra loro. Oggi c’era
un ragazzo afghano che ha disegnato l’Af-
ghanistan bellissimo, con la campagna e gli
animali, chiuso dentro una grata e accanto
una porta aperta con un signore ricchissi-
mo, con molti soldi, tutto illuminato. Il ra-
gazzo accanto a lui gli diceva: “Ma che è?
Hai sbagliato! Devi fare la porta chiusa di
qua e aperta di là, no?”. Era interessantis-
simo il discorso tra loro due. Per uno l’uomo
ricco è la porta aperta e l’Afghanistan è la
porta chiusa. E l’altro a insistere: “Tu non
hai capito niente. Il magnate con i soldi è un
uomo cattivo!”.
Elena.
Un signore senegalese ha disegnato
il mare tutto chiuso con una grata perché
non vuole che suo figlio compia lo stesso
viaggio. “Basta -ha detto- dobbiamo lavora-
re in Africa”. E a fianco hai quello che dise-
gna la macchina e i soldi: per lui l’Europa è
quello.
Cecilia.
La cosa bella è quando si abbando-
nano questi immaginari e rimaniamo tu e
io qui, dove tu hai dei problemi e io ne ho
degli altri. Questo è quello che proviamo a
fare a scuola. Ma perché c’è questo contesto
specifico che uno crea e cura. Un contesto
che difficilmente ci sarebbe fuori.
Il fatto è che migranti e non migranti non si
incontrano mai in contesti “naturali” e que-
sto fa sì che le dinamiche e le relazioni siano
sempre un po’ falsate e condizionate dagli
immaginari reciproci e dai pregiudizi, buoni
o cattivi che siano. La scuola è ancora un
contesto abbastanza naturale.
Nelle associazioni, nei centri d’accoglienza
è tutto appiattito su un noi-voi, e lì non c’è
tanto margine di negoziazione di contenuti.
Al contrario c’è molto paternalismo. È una
relazione faticosa quella con gli immigrati;
il paternalismo viene bene, è più facile: “Po-
verini, hanno fatto questo viaggio...”. Pur-
troppo le reti d’accoglienza soffocano tutta
una serie di risorse che invece ci sarebbero.
Tutto l’impianto sembra fatto per renderli
passivi, dipendenti. È tutto pronto, il cibo
stesso è impacchettato.
Come funziona la scuola?
Elena.
Noi facciamo tre giorni di lezione
a settimana: lunedì, martedì e mercoledì
dalle nove all’una. Abbiamo circa settan-
ta persone divise in tre classi: la classe di
prima alfabetizzazione, una classe base e
una classe avanzata. La mattina inizia con
un’ora di accoglienza, in cui si fa colazione
con tè, caffè e biscotti. Sui tavoli ci sono dei
giochi di lingua e gli studenti scelgono auto-
nomamente dove sedersi e come utilizzarli.
Ci siamo anche noi. È il momento in cui si
possono conoscere tra di loro, indipenden-
temente dal livello di lingua. Poi iniziamo
con una specie di rito che ci accompagna da
quando siamo nati, un cerchio collettivo in
cui ci si risveglia, si riattiva il corpo, la voce,
ecc. Poi si parte.
La particolarità di questa scuola è che ab-
biamo una classe dedicata ad analfabeti
funzionali e totali. Gli analfabeti funziona-
li sono persone che riescono a leggere e a
scrivere in funzione di qualcosa, che sanno
usare la lingua per completare un modulo,
ma non per comunicare. Abbiamo persone
che magari hanno fatto solo pochi anni di
scuola coranica, oppure donne, soprattutto
del Maghreb, che non sanno proprio legge-
re e scrivere e che per seguire i figli con i
compiti si ritrovano ad andare a scuola per
la prima volta a quarant’anni. Parliamo
di adulti, per cui non si possono fare cose
troppo infantili, anche se si può comunque
giocare con le mani, visto che bisogna ap-
prendere una certa manualità. La Montes-
sori ci ha fornito tantissimi strumenti, come
ad esempio le lettere smerigliate. I sensi
ci aiutano molto, non solo la vista e l’udito
ma anche, appunto, il tatto e il gusto. Noi
siamo fortunati perché abbiamo la cucina,
quindi impastiamo, lavoriamo con la pasta
di sale. Prima di arrivare alla scrittura con
la penna, un segno molto definito e sottile,
si fa tutto un percorso: si modella la pasta
di sale, si disegna nella farina, si dipinge col
pennello e piano piano si arriva al riconosci-
mento vocale, sonoro e visivo. Sono processi
molto lunghi, però funzionano. Non si arri-
va a grandi livelli, però si guadagna un po’
di autonomia. C’è un signore di 48 anni, in
Italia da tre, che parla perfettamente italia-
no però non sa scrivere, non riconosce la “a”
in stampato maiuscolo. Adesso come adesso,
senza lavoro, lui è fuori. A scuola dobbiamo
agire su molti fattori, anche sulla vergogna.
Fuori dall’orario scolastico cosa fanno?
Cecilia.
Girano, girano, girano! “Girare” è
la prima parola che imparano. Girano per
Roma, cercano un lavoro, qualsiasi cosa. Le
persone appena arrivate non hanno altre
relazioni a parte il centro di accoglienza, la
questura, l’avvocato e le scuole di italiano.
I due problemi fondamentali sono la dislo-
cazione dei centri d’accoglienza, che sono
molto lontani, e il biglietto dell’autobus: in-
corrono tutti i giorni nel rischio di prendere
la multa. D’altra parte, se il pocket money è
2,5 euro al giorno e due biglietti costano tre
euro... Poi uno può anche aver voglia di com-
prarsi qualcosa da mangiare che non sia il
solito cibo confezionato del centro o magari
fuma. E poi c’è l’essere costretti all’inattivi-
tà, che è terribile.
A Garbatella abbiamo un orto urbano, un
piccolo appezzamento, e quando lavorano lì
dieci minuti mi dicono: “Che bello, stasera
posso dormire!”. Pensa a cosa vuol dire, per
un uomo o una donna di 20-30 anni stare
tutto il giorno fermo, fare tre ore al corso di
italiano e poi oziare davanti alla televisione
con tutti i pensieri, i problemi, le preoccupa-
zioni per il futuro...
Le richieste di asilo vengono accettate?
Elena.
L’Italia è molto “italiana” in questo,
nel senso che persone che hanno ricevuto
dei dinieghi in Europa vengono nel nostro
paese perché qui è più facile. Dopodiché di-
pende dove capiti. Ci sono Sprar (il sistema
di protezione per richiedenti asilo e rifugia-
ti) che lavorano bene e altri no.
Le tempistiche di richiesta per l’alloggio
sono di quattro-cinque mesi. Nel frattempo
vai a dormire dall’amico, altrimenti dormi a
Termini. Questo succede quando, ad esem-
pio, hai ottenuto il documento ma non trovi
lavoro a Roma, quindi vai a lavorare nelle
campagne; quando torni a Roma non hai più
l’alloggio e devi aspettare cinque o sei mesi.
Se aspetti, alla fine un posto ce l’hai, ma se
provi ad andartene lo perdi. A Roma è vera-
mente molto difficile adesso trovare qualco-
sa di continuativo. I lavori sono volantinag-
gio e vendere le bevande allo stadio. Fare le
pulizie è diventato uno dei lavori più ambiti.
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin) .
a Garbatella abbiamo un orto urbano
e quando lavorano lì mi dicono: “Che
bello, stasera posso dormire!”
Fortress Europe
Dal 1988 almeno 19.781 giovani sono
morti tentando di arrivare via mare in
Europa, 2.352 dei quali soltanto nel corso
del 2011: 150 vittime ogni mese.
Nel Mar Mediterraneo e nell’oceano At-
lantico verso le Canarie sono annegate
14.852 persone. Metà delle salme (9.119)
non sono mai state recuperate.
Nel Canale di Sicilia tra la Libia, l’Egitto,
la Tunisia, Malta e l’Italia le vittime sono
7.283, di cui 5.360 dispersi.
Altre 229 persone sono morte navigando
dall’Algeria verso la Sardegna (dati ag-
giornati al 14 giugno 2014).
(Fonte: Fortresseurope.blogspot.com).
Nell’anno 2014, nonostante l’operazione
Mare Nostrum, sono morte 3.419 persone
nel Mar Mediterraneo.
(Fonte: 10/12/2014 Unhcr).
le reti di accoglienza soffocano
tutta una serie di risorse
che invece ci sarebbero
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