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sono tutti cristiani, non è un problema. La
signora congolese ci ha riaccompagnato in
stazione e ho preso un biglietto per il Bel-
gio. In un bar di senegalesi ho chiesto un po’
di informazioni in dialetto, il mio amico era
maliano e mi parlava in maliano. Intanto
che parlavamo si è fermato un senegalese e
mi ha chiesto da dove venivo, gli ho risposto
che ero del Senegal, del Casamance: “Anche
se uno non ti conosce, capisce che sei sene-
galese” mi ha detto. Mi ha dato l’ indirizzo di
un locale senegalese dove potevo dormire. Io
ci sono andato col mio amico. Ci hanno detto
che non potevamo restare se non chiedeva-
mo asilo, ma non potevamo, naturalmente,
e allora ci hanno mandati via. In Belgio non
ho potuto fare niente e con i soldi che aveva-
mo non si mangiava, andavamo a una specie
di Caritas e c’era un dormitorio. Si pagava
un euro per mangiare. Dopo abbiamo deciso
di andare in Francia, dove c’era un parente
con la sua famiglia.
Perché non ci sei andato subito?
Yaya:
Perché se un africano viene in Europa
a lavorare non ha molti soldi e io non vole-
vo andare a chiedere aiuto da lui e dargli
problemi. Ma un mio amico mi ha detto di
andare a vivere da lui. Non potevo lavorare,
ma ho trovato un congolese che faceva l’im-
bianchino e mi ha dato da lavorare in nero
per un po’. Quando guadagnavo qualcosa
pagavo l’affitto al mio amico, un fratello per
me. Ma non funzionava niente, perché la po-
lizia è venuta sul posto di lavoro a control-
lare i documenti e mi hanno detto che non
avevo diritto di lavorare in Francia e che do-
vevo tornare in Italia. Così sono tornato qui.
Nel 2014 c’è la storia della tenda dormi-
torio della Croce Rossa dove potevano
dormire quelli che tornavano per il rin-
novo dei documenti.
Yaya:
Prima della tenda sono andato a
Mamré (una struttura della Caritas), sono
stato là quattro mesi, dopo sono andato nel-
la tenda che ha fatto la Croce Rossa per l’in-
verno; ho trovato delle persone che erano a
San Biagio e che avevano tentato di trovare
lavoro in Europa come me e poi sono dovuti
tornare. Poi per fortuna ho lavorato un po’
in campagna con i meloni. Intanto c’è sta-
to un problema: mia madre mi ha telefona-
to per dirmi che doveva fare un’operazione
grave. Una dottoressa di Mantova Solidale
mi ha detto che mi avrebbe dato cento euro.
Poi sono andato a casa di un mio amico ma-
liano che mi ha prestato seicento euro, più
gli altri cento ne ho potuti mandare a mia
madre settecento per fare l’operazione e
avere le medicine.
In campagna non è andata benissimo, il pa-
drone ci pagava poco, faceva tante storie e
il tempo è stato brutto. Tutti i soldi che ho
preso ho dovuto restituirli al mio amico, mi
sono rimasti trentacinque euro. Così non
avevo più niente per mangiare quando in
settembre sono venuto nella casa di Manto-
va Solidale.
Qualcuno mi ha detto che alla Caritas ci
avrebbero dato delle cose, ci sono andato.
In realtà ti danno solo pasta e pomodoro,
mai riso, ma era già qualcosa. Il problema
è che la gente che è arrivata come me sta
soffrendo, non c’è lavoro, non sappiamo
come fare a trovare i soldi per contribuire
all’affitto e, se paghi l’affitto, non ti resta-
no i soldi per mangiare. Certe volte alle due
di notte io non riesco a dormire e neanche
Samuel, allora dico a Samuel che dobbiamo
risolvere il problema in qualche modo, ma
noi non vogliamo andare a chiedere l’elemo-
sina, questo no, piuttosto moriamo di fame.
Forse può farlo uno ammalato che non può
camminare, ma io no. E non posso neanche
andare a rubare i soldi di qualcuno. Tutte
le mattine mi sveglio per andare a cercare
lavoro con il mio curriculum, ma non si tro-
va. Comunque vada, Mantova Solidale ha
fatto più di quello che avrebbe fatto la mia
famiglia.
Le vostre comunità religiose vi hanno
aiutato in qualche modo?
Samuel:
Io sono cristiano pentecostale, sia-
mo in pochi e nessuno lavora, neanche il pa-
store.
Non dico solo per i soldi, intendo anche
per un aiuto psicologico, trovarvi insie-
me, avere amici lì…
Samuel:
Sì, li ho conosciuti quando erava-
mo in albergo. Prima andavo in una chiesa
nigeriana, poi ho trovato un amico ghanese
e mi ha dato il suo numero di cellulare, così
ho incominciato a frequentare la chiesa pen-
tecostale. Anche lui non ha il lavoro. Ma sto
bene quando vado in chiesa
Yaya:
Io vado in moschea tutti i venerdì a
pregare e a salutare gli altri. Anche lì tanti
non hanno lavoro, ma hanno una famiglia.
Dopo la preghiera torno a casa.
Tu, Yaya, sei crititco rispetto a quello
che stanno facendo in alcune parti del
mondo certi che si dicono musulmani.
Yaya:
Mi ricordo la sera che tu sei venuta a
prendermi a Suzzara dopo una partita e ab-
biamo parlato di questo. Quando è successa
quella cosa, l’attentato a Charlie Hebdo, il
7 gennaio, a Parigi mi sono venuti in men-
te i discorsi che avevamo fatto quella sera.
Quelli rubano il nome dei musulmani, io
sono un musulmano e so che un buon mu-
noi non vogliamo andare a chiedere
l’elemosina, questo no,
piuttosto moriamo di fame