Da Lampedusa al Brennero - page 35

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una cooperativa sociale nelle Marche: “Lo
prederesti?”, e lui mi dice: “Mah, sapesse
guidare un trattore...”. Allora io lo chiamo e
gli dico: “Ma tu solo gli elefanti?”, e lui: “No
no, ho fatto anche un corso per le giraffe!”.
Oltre a certificare la loro condizione, mettia-
mo a disposizione due psichiatri e due me-
dici. Abbiamo anche uno psicologo, che però
cura soprattutto gli operatori. Avere a che
fare con questo tipo di storie fa male.
Ad ogni modo, proprio per la difficoltà di
parlare di certe cose, il certificato arri-
va alla fine di un lungo percorso. Durante
questo percorso il medico prende in carico i
problemi legati anche soltanto al fatto che
la persona dorme per strada, oppure ha il
diabete e non sa come mangiare regolar-
mente. L’operatore sociale aiuta la persona
a orientarsi nella giungla della burocrazia;
lo psicologo o lo psichiatra fanno dei collo-
qui. In tutta questa rete di sostegno, a un
certo punto può essere che la persona parli.
Durante una riunione con un gruppo di psi-
cologi e psichiatri transculturali a Firenze
mi fu chiesto, l’ultimo quarto d’ora, di cer-
tificare un ragazzo congolese che avrebbe
avuto la Commissione dopo tre giorni. Ave-
va alle spalle storie di violenza. Io, fermo, ho
spiegato ai colleghi che il certificato è un iter
lungo. Però siccome ogni regola ha le sue ec-
cezioni, sono andato a visitarlo. In quel caso
il rapporto fra noi si è stabilito per una scioc-
chezza. Quando sul permesso di soggiorno
ho letto “Congo”, ho chiesto: “Quale Congo?”
e lui è rimasto stupito: “Lei sa che ci sono
due Congo?”. Lui era della Repubblica De-
mocratica del Congo. è bastato questo per
entrare in confidenza. Ma, di nuovo, sono
cose che non si possono codificare. Le diffe-
renze culturali ci sono e si cerca di studiarle
il più possibile, ma il miglior modo per met-
terle a fuoco è farsi raccontare da loro gli
elementi fondamentali, come il senso della
famiglia o il rapporto tra le religioni animi-
ste. Un giorno un uomo congolese, dopo aver
ottenuto il riconoscimento dello status di ri-
fugiato, si è presentato con un vestito tradi-
zionale. Salutandolo, gli ho dato una pacca
sulla spalla, ormai eravamo in confidenza;
lui si è subito irrigidito. Quando gli ho chie-
sto perché, mi ha detto: “Sai, da noi questo
significa: stai al posto tuo”.
Che torture subiscono le persone che
incontrate?
Dipende dai paesi. Noi vediamo molti curdi
che sono costretti a fare il servizio militare,
non possono parlare in curdo e sono sottopo-
sti a sedute di vera tortura. Tra le varie tor-
ture “scientifiche” c’è la falaka. Si tratta di
percosse sulla pianta dei piedi. È una moda-
lità che fa capire molto bene il meccanismo
della tortura: lascia pochi segni fisici e un
grande dolore ai piedi per anni, così quando
la persona cammina si ricorda della tortu-
ra. La Somalia fa delle carcerazioni spa-
ventose con isolamento completo per mesi,
anni, peggio delle botte. In Mauritania c’è la
schiavitù dei neri, schiavizzati dai bianchi
con percosse, ustioni, violenze di tutti i ge-
neri, non solo in prigione ma anche in casa.
In Eritrea avvengono carcerazioni e botte.
L’ultimo caso che ho visto era quello di un
uomo che aveva subito percosse sulla pianta
dei piedi in sospensione inversa, ossia appe-
so per una caviglia.
Dietro questo tipo di tortura c’è una preci-
sa intenzione, come nella sospensione per le
braccia, che spesso avviene per un braccio
solo: si compie questa scelta perché è più in-
validante. Tutto il peso è su una sola spalla
e la persona non si può nemmeno muovere
un po’. Le conseguenze sono pesanti: lussa-
zioni croniche e rotture dei legamenti. Ov-
viamente è sempre un fatto di potere. Alla
base di tutto c’è il considerare l’altro privo di
diritti. È come un ragazzino che strappa le
zampe a una lucertola. Ci sono anche casi di
torturati che sono stati torturatori. In molte
situazioni è qualcosa che sospettiamo, non è
che te lo dicono. Hannah Arendt ha spiega-
to molto bene questi meccanismi: i tedeschi
sapevano organizzare il lavoro, per cui ad
esempio a uno capitava di raccogliere i denti
senza sapere da dove venissero, di chi fosse-
ro. C’è tutta la storia delle scuole di tortura
che è interessante. Ci sono delle tecniche che
vengono apprese, non vengono naturali. Si
tratta di professionisti. Gli americani han-
no una bella cosa: dopo un certo numero di
anni desecretano tutti i documenti, di qua-
lunque cosa si tratti. Così ora è reperibile il
manuale di addestramento della Cia, dove
viene fuori il ruolo degli psicologi. A parte le
cose banali che si vedono anche nei film, il
gioco di ruolo del carnefice che fa il buono, ci
sono vere e proprie analisi della personalità
della vittima e dei meccanismi che fanno ce-
dere più facilmente. I medici, invece, hanno
il compito di fermare la tortura quando c’è il
rischio di morte perché la vittima non deve
morire, deve testimoniare. Dietro alle tortu-
re c’è tutto un corpo di conoscenze.
Che cosa succede dopo, con la “guari-
gione”?
Guarigione non è la parola adeguata: non
è una malattia. Chiamiamola rinascita.
Gina Gatti è una donna che è rinata, anche
se quando l’ho incontrata mentre in Cile
era in discussione una legge sull’amnistia
era come se avesse fatto un passo indietro
di dieci anni, era ritraumatizzata. Da noi
passano tra le centocinquanta e le duecen-
to persone nuove l’anno. Su 180 persone ci
sono 30-40 casi nuovi di tortura. Ora, con la
crisi, ritornano le persone che erano anda-
te a lavorare al nord. Questo è un dramma
perché non sai che cosa dirgli. Noi proprio
non sappiamo cosa fare perché non hanno
lavoro e non hanno una casa. I più struttu-
rati riescono ad andare a raccogliere le mele
in Trentino e i pomodori al Sud, si muovono
in base alle stagioni e si guadagnano da vi-
vere. Il problema più grosso è forse il vuoto
che queste persone patiscono dopo il ricono-
scimento: un’assoluta pienezza dei diritti e
un’assoluta mancanza di qualsiasi sostegno.
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin).
guarigione non è la parola adeguata:
non è una malattia.
Chiamiamola rinascita
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