Da Lampedusa al Brennero - page 34

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Carlo Bracci, medico legale, membro dell’As-
sociazione Medici contro la tortura, da anni
collabora con il Centro Astalli di Roma per
la certificazione delle torture subite dai ri-
chiedenti asilo.
Di che cosa parliamo quando parliamo
di tortura?
C’è una definizione giuridica che però non
serve nel rapporto con la persona. Possiamo
dire che lo scopo di ogni pratica di tortura,
qualunque sia il metodo, è distruggere l’i-
dentità e la dignità della persona e della co-
munità da cui proviene. Questo può essere
raggiunto con una violenza fisica, psicologi-
ca o sessuale. All’inizio le persone mettono
in atto dei meccanismi di difesa di cui uno
è il disturbo della memoria. Non si tratta di
cancellare tutto, ma di sprazzi di ricordi. In
termini psicologici questo meccanismo vie-
ne definito “impossibilità di mentalizzare”,
cioè non solo di parlare, ma anche proprio
di rappresentarsi mentalmente quello che è
successo. Quattro, cinque anni fa un’amica
di Amnesty ci telefonò da Firenze dicendo
che una signora voleva venire a parlarmi. Si
presentò questa donna sui sessant’anni che
negli anni Settanta, quando era studentes-
sa universitaria in Uruguay, era stata ar-
restata. Lei non ricordava quello che le era
successo, solo di essere stata ricoverata in
una clinica e poi di aver avuto il permesso di
venire in Italia come figlia di emigrati.
In Italia ha studiato storia dell’arte, ha vin-
to un concorso in un piccolo comune vicino
a Firenze come responsabile delle politiche
culturali, si è sposata e ha avuto un figlio.
Un giorno suo figlio le ha detto: “Su internet
ho ricostruito tutta la storia dell’Uruguay.
Che è successo a te?”. Lei ha tagliato corto:
“Quello che è successo a tutti”. Poco dopo al
Comune dove lavorava è arrivata la Guar-
dia di finanza, ha sequestrato dei faldoni
e si è portata via un assessore. Questa per
noi è una scena abituale, a lei è scoppiato
qualcosa dentro. Mi ha detto: “Io ho delle
schegge di ricordi terribili e voglio capire se
sto diventando matta”. Le abbiamo spiegato
che purtroppo sono cose che vediamo spes-
so. Tornata a casa ha iniziato a mandarmi
delle e-mail con dei pezzi di ricordi. Un po’
alla volta le cose sono tornate fuori. Qualche
anno dopo ha scritto un libro ed è diventata
una testimone nel processo contro i militari
in Uruguay.
Ti occupi delle certificazioni di tortura
per i richiedenti asilo.
La richiesta d’asilo si distingue da tutte le
altre condizioni perché il richiedente spesso
non ha documentazioni oltre alla sua parola.
Infatti, in questo caso, è compito della com-
missione e del giudice acquisire delle prove,
a differenza del processo civile dove sono le
parti che portano le prove. In questa fase c’è
tutto il problema, grave, della vergogna, e
della paura di non essere creduti. Conosci il
sogno ricorrente di Primo Levi? Lui torna a
casa, suona il campanello, la sorella apre la
porta, la richiude e se ne va. Primo Levi dice
che è il sogno ricorrente di tutti gli “ospiti”:
non essere più riaccettati e creduti.
Il torturato che non parla somatizza. Spesso
le vittime di tortura vanno dal medico per-
ché hanno dolori da tutte le parti, e ci sono
delle belle storie in cui i dolori passano o di-
minuiscono dopo l’ascolto. Si chiamano “di-
sturbi psicosomatici” e sono particolarmente
frequenti in chi ha subìto violenze di questo
tipo. Quello che a me sembra interessante
è che questi sintomi colpiscono strutture
psicologiche così profonde che prescindono
dal paese di provenienza. Il modo di espri-
mere il dolore è determinato culturalmente,
il dolore no. Come la reazione d’allarme: se
ti scoppia una bomba vicino, la tua reazione,
quella di cercare di proteggerti, non è cul-
turale.
Comunque il nodo fondamentale della tortu-
ra sta nell’intenzionalità di chi fa del male,
che la distingue dallo stress di vittime di
disastri aerei o terremoti. Il fatto che un es-
sere umano abbia fatto quelle cose per farti
del male è distruttivo. C’è una psicanalista
molto brava, Françoise Sironi, che ha scritto
un libro per Feltrinelli,
Persecutori e Vitti-
me
. Il suo intervento consiste in incontri set-
timanali ripetuti per quattro, cinque mesi,
in cui la persona capisce che sta male perché
un altro essere umano le ha fatto tutte quel-
le cose. Questo passaggio di consapevolezza
permette di ricominciare a vivere.
Come riuscite a individuare le vittime
di tortura? A volte passano anni prima
che la persona parli.
La signora dell’Uruguay di cui ti parlavo ci
ha messo trent’anni prima di iniziare a par-
lare. Anche Gina Gatti, vittima della tortura
cilena, ci ha messo degli anni. Come succede
che una persona inizia a parlare? Questa è
una domanda a cui mi piacerebbe avere una
risposta perché vorrebbe dire che è possibile
ricreare la situazione. Un africano subsa-
hariano seguito dal Centro Astalli, che era
stato otto mesi in uno dei peggiori carceri
in Africa, negava di aver subito qualunque
tipo di violenza. Cosa dovevo fare? Come si
fa a visitare una persona così e dire “Non
c’è niente da certificare”? Tanto più che il
certificato serve per avere il riconoscimen-
to. Allora ci sediamo, mi presento e gli dico
quello che dico in genere alle donne quando
sono costretto a vederle io: “Se non capisce
il mio francese mi fermi e me lo dica perché,
sa, l’ho studiato a scuola 60 anni fa”. Questo
dà alla persona la consapevolezza che tu sei
anziano, e quindi sei meno pericoloso. Tra
l’altro, quando gli africani vedono un anzia-
no sono convinti che sia arrivato a quell’età
perché l’ha benedetto Dio. Comunque, lui
rimane chinato e dopo tre minuti d’orologio
si alza e mi dice: “Io parlo con lei perché ha
l’età che avrebbe mio padre se non l’avesse-
ro ucciso davanti ai miei occhi”. Dopodiché
mi racconta una storia di violenze sessuali
di quelle brutte, di quelle che lasciano il se-
gno. Che cos’era successo? Non lo so. Ci sono
delle situazioni in cui succede qualche cosa
e la persona improvvisamente parla. Altre
volte non succede niente. Infatti stiamo cer-
cando di capire quali sono gli elementi che
aiutano. Il fatto è che questa certificazione
perlopiù avviene in momenti non opportu-
ni, cioè troppo presto. Anche se la persona
accetta, si tratta di violenza, è come togliere
un dente senza anestesia: la persona se lo fa
levare però le fai male.
Per me è più facile lavorare con i francofoni
perché ci vediamo in due, senza mediatore.
Questo probabilmente è uno dei motivi per
cui con senegalesi, mauritani e congolesi si
stabilisce più facilmente un rapporto. C’è
anche da dire che ormai si fidano della strut-
tura. Sia quello di Medici contro la tortura
sia quello del Centro Astalli è un percorso,
non una visita: c’è un’accoglienza, un accom-
pagnamento fatto di tanti incontri, un aiuto
sociale e a un certo punto per un qualche
motivo si aprono. Ma non tutti. C’è qualcu-
no che non si fida e non dice di essere stato
torturato. Spesso quelli che stanno peggio
stanno più zitti degli altri. Come si fa? Eh,
non si può fare tutto. Qualche volta invece
capita all’improvviso. Ecco, mi piacerebbe
capire cosa scatta, per poterlo riprodurre.
Probabilmente ci sono delle condizioni che
lo favoriscono, una certa alchimia.
Dicevi che c’è un aiuto a tutto tondo.
Puoi spiegare?
Per prima cosa li si aiuta a capire le pro-
cedure amministrative. Li si accompagna a
iscriversi al servizio sanitario nazionale a
cui hanno diritto e si mette a loro disposi-
zione un mediatore-interprete per gli uffici e
per l’ospedale. Poi li si aiuta ad andare alla
commissione, li si sostiene con un ascolto
partecipato più che con una terapia. Li si
indirizza verso l’ufficio per il lavoro (quando
non c’era la crisi era più facile, trovavano la-
voro, adesso è una disperazione). Accadono
anche incontri strani. Ho chiesto a un ragaz-
zo africano: “Che lavoro facevi?”, “L’educato-
re di elefanti”. Ho chiesto a un amico che ha
Quel sogno ricorrente
di Primo Levi
lui suona il campanello,
la sorella apre la porta, la richiude
e se ne va: è un sogno ricorrente
proprio per la difficoltà di parlare
di certe cose, il certificato arriva dopo
un lungo percorso
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