Da Lampedusa al Brennero - page 36

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Cecilia Bartoli, psicoterapeuta, ed Elena Ca-
nestrari, insegnante d’italiano, fanno parte
dell’associazione Asinitas.
L’associazione “Asinitas onlus centri di edu-
cazione e cura con i migranti” è nata a Roma
nel 2005. I soci fondatori provengono da di-
versi percorsi di ricerca e azione con adulti
e bambini migranti. Le finalità dell’associa-
zione sono quelle di creare e mantenere con-
testi educanti di accoglienza e cura.
Come vedete la situazione attuale
dall’osservatorio di Asinitas e della
scuola d’italiano?
Elena.
Il numero di studenti che accogliamo
a scuola è sempre molto alto, indipenden-
temente dagli ultimi sbarchi, ed è legato al
fatto che Roma accoglie la maggior parte di
richiedenti asilo e rifugiati: la città è il pri-
mo punto d’arrivo dopo la Sicilia. Abbiamo
un’ottantina di rifugiati che studiano qui.
Dall’inizio alla fine dell’anno, da settembre
fino a giugno, circolano dalle 150 alle 200
persone. Una parte del gruppo rimane fissa,
ma c’è chi arriva e chi parte. La porta è sem-
pre aperta, anche per le iscrizioni. Abbia-
mo un progetto per donne a Torpignattara
con una cinquantina di immigrate arrivate
qui con il ricongiungimento familiare. Con
loro facciamo percorsi di sostegno alla ma-
ternità, insegniamo la lingua speciale per
le donne incinte e per i primi mesi di vita
del bambino. Mi sento di dire che non agia-
mo nell’emergenza dei nuovi sbarchi perché
non siamo sul campo. La nostra azione è
più sull’accoglienza e sul lavoro di rimessa
in sesto della persona che arriva, perché i
centri di accoglienza sono sempre qualcosa
di molto precario.
Ci sono adesso dei centri d’accoglienza per i
“dublinati”. Quest’anno ci sono arrivati que-
sti ragazzi da questo centro che si chiama
“Centro amici”, che ora è chiuso, un luogo
per persone vulnerabili, tra cui appunto i
dublinati, cioè quelli che vengono rispedi-
ti in Italia dalla Svezia, dalla Francia, dal
Belgio, ecc., perché avendo fatto la prima
richiesta di asilo qua non possono lasciare
il paese. Le persone considerate vulnerabili
hanno diritto a un anno di accoglienza, ma il
fatto è che sempre più spesso questi centri,
finito il periodo, chiudono e queste persone
non sanno nemmeno dove andare.
Noi quest’anno ci siamo trovati con un peg-
gioramento del Cara (Centro di Accoglien-
za per Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di
Porto, a un’ora da Roma. Molti degli studen-
ti vengono da lì e la situazione è sempre sta-
ta molto precaria, con pochissimi servizi e
una grande difficoltà a raggiungere i servizi
basilari come la scuola, l’ospedale, l’avvoca-
to. Parliamo di settecento persone dentro un
grande container; le varie cooperative che
l’hanno gestito si sono rivelate inefficienti
nel garantire i servizi. In particolare, l’ulti-
ma cooperativa che è subentrata ha vinto un
appalto a ribasso e quindi ha tagliato perfi-
no la navetta che portava da Castelnuovo di
Porto alla prima fermata dell’autobus. Sen-
za navetta si devono fare 40 minuti di cam-
mino solo per arrivare alla fermata. Inoltre
non danno più soldi direttamente, ma una
scheda con cui possono comprarsi delle cose
solo alla dispensa all’interno del Cara.
E dire che vengono elargiti anche dei soldi
per i richiedenti asilo: circa 70 euro al giorno
per i minori e 40 per gli adulti. L’emergenza
Nordafrica del 2011 è stata un’esperienza
eclatante: in quel periodo sappiamo come a
fronte di 40 euro al giorno che dovevano ser-
vire per vitto, alloggio, ma anche assistenza
sanitaria, legale, ecc., poi alle persone veni-
va dato del riso in bianco a pranzo.
Abbiamo visto cooperative che non avevano
mai avuto esperienza con gli stranieri but-
tarsi in questo mercato nella più assoluta
improvvisazione: gente che magari un anno
ha a che fare con i portatori di handicap, un
anno con i malati mentali, un anno con gli
ex carcerati e un anno pure con i richiedenti
asilo! Un Cara, tra l’altro, dovrebbe acco-
gliere una persona per un tempo limitato,
invece ci sono degli studenti che vivono al
Cara da due anni. Questa per noi è anche
una sconfitta perché significa che non hanno
trovato altro.
Qui cosa fate?
Cecilia.
Noi non lavoriamo tanto sulle pro-
blematiche di tipo pratico, nel senso che ab-
biamo una rete con dei legali, poi ci sono gli
sportelli e uno semplicemente li informa…
In alcuni casi molto fragili e disorientati ci
mettiamo di persona ad accompagnarli, ma
sono solo alcuni. Qua si fa soprattutto un la-
voro di gruppo sulla persona e sulla lingua.
Questa è una scuola di lingua italiana con
un’attenzione speciale all’acquisizione della
lingua come veicolo di un senso di identità
e di sicurezza nuovi. Si cerca di tessere dei
fili tra quello che hanno lasciato a quello
che oggi hanno trovato; di aumentare la re-
silienza anche in situazioni di forte stress
all’interno dei centri. Utilizziamo diversi
linguaggi, tenendo al centro la relazione:
considera che questa è la prima porta aper-
ta che trovano. Oggi per esempio abbiamo
lavorato proprio sulla porta. La consegna
era di disegnare una porta chiusa, socchiusa
o aperta incontrata durante il viaggio. Era-
no una sessantina e almeno venti hanno in-
dividuato la scuola come porta: per molti è il
primo luogo dove tornano a essere persone.
Quello trascorso qui è un tempo molto fecon-
do in cui c’è una rimessa in gioco di tutta la
personalità che si ristruttura e allo stesso
tempo è sottoposta a grandi stress. Un ra-
gazzo ha disegnato la porta di un carcere
libico con dentro un ragazzo impiccato e un
poliziotto con un bastone, e da lì ha raccon-
tato i mesi di carcere durissimo e di questo
ragazzo impiccato che ha visto con i suoi oc-
chi e di cui non era mai riuscito a parlare.
Noi non lavoriamo mai in maniera diret-
ta sui traumi. È importante offrire opzioni
espressive diverse capaci di tirar fuori le pa-
role. L’Italia è molto indietro nell’approccio
a queste problematiche. Noi riteniamo che
ci debbano essere uno spazio e un tempo in
cui le persone tirano fuori quello che hanno
dentro. Non siamo noi a chiedere, a decide-
re, sono loro che eventualmente chiedono
un aiuto. In giro ci sono categorie e metodi
inadatti di diagnosi e cura; si somministra-
no molti psicofarmaci e mancano le risorse
per fare il vero lavoro di accompagnamento,
che è il lavoro dell’educatore, dell’assistente
sociale, di qualcuno che si mette lì e risolve
anche i problemi di natura pratica se ci sono.
Rispetto all’aiuto psicologico bisognerebbe
capire che i nostri setting di cura non sono
adatti da un punto di vista psicoterapeutico.
Il rapporto duale in molte culture è perfino
proibito, un furto d’anima, e comunque non
si cura in due, è il gruppo che cura, la co-
munità. In Italia l’approccio della terapia di
gruppo con i rifugiati è molto debole. Si fan-
no laboratori centrati sul trauma, ma con
scarsa preparazione, per cui un pakistano
che si è visto ammazzare la moglie si ritro-
va a fare danzaterapia. C’è molta confusio-
ne di metodi, di approcci e chiunque ha un
po’ di soldi imbastisce qualcosa. Non c’è un
programma nazionale di formazione degli
operatori per le strutture, per cui negli ospe-
dali non trovi mediatori formati. Il sistema
è molto alienante.
Quello che noi proponiamo lo facciamo so-
prattutto durante la scuola, in un contesto
che già di per sé offre molte possibilità di
cura, di elaborazione dei vissuti, di radica-
mento. Chiaramente avendo i soldi sarebbe
bello mettere su un’équipe multidisciplina-
re. Lo pensiamo da anni. Alcune persone
si “rompono” proprio sotto i nostri occhi.
Purtroppo riusciamo a intervenire solo nei
casi estremi, con chi veramente, a un certo
punto, in mezzo alla stanza, comincia a par-
lare con Allah. Assistiamo a dei casi di vero
crollo psicologico.
Che percorsi fanno queste persone?
Cecilia.
I più disparati. Alcuni rimangono
intrappolati nei centri d’accoglienza per
anni e anni, altri riescono a intraprendere
un percorso di formazione oppure trovano
un lavoro. I lavori sono quello che sono, mol-
ti sono in nero.
Quanto pesa la crisi?
Cecilia.
Tantissimo. Pesa anche la loro ansia
di andare via e di non poterlo fare. Magari
hanno pezzi di famiglia in Europa, amici che
dicono: “Vieni!”, ma loro non possono muo-
versi. Questa legge di Dublino è terribile.
Elena.
Possono viaggiare all’estero ma non
lavorare. Sono imprigionati in un paese in
crisi.
Cecilia.
Non sono cittadini europei. Sono dei
rifugiati politici, quindi hanno un titolo di
viaggio per circolare come turisti. Possono
andare a trovare i parenti, possono viaggia-
re, però poi devono tornare qui.
In questi anni cos’avete capito, cos’ave-
te imparato?
Elena.
Che si lavora bene in un numero mo-
I Dublinati
un pakistano che si è visto
ammazzare la moglie si ritrova
a fare danzaterapia
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