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Maria Bacchi dialoga con Yaya Mane e Sa-
muel Gandabie, arrivati a Mantova nel 2011
durante la cosiddetta Emergenza Nord Afri-
ca. Le loro vite si sono incrociate nella rete di
rifugiati di cui si occupa Mantova Solidale,
una piccola Onlus nata all’inizio del 2013.
Cosa è importante dire, secondo voi?
Cosa vi sentite di raccontare?
Yaya e Samuel (insieme, ridendo):
Mamma
mia!
Maria:
Perché dite così?
Yaya:
Perché è una storia dolorosa. E’ per
questo motivo che non mi piace raccontare
la mia storia.
Mi chiamo Mane Yaya, sono nato il primo
gennaio 1991 in Costa D’ Avorio, ma i miei
genitori sono senegalesi. Durante la guer-
ra in Costa d’Avorio mio padre è morto; io
con mia mamma, mia sorella e mio fratello
ci eravamo nascosti; dopo due giorni siamo
tornati a casa e abbiamo trovato mio pa-
dre già morto. Dopo abbiamo organizzato il
viaggio per andare in Senegal, a casa di mio
nonno. Ho iniziato a studiare ma non potevo
continuare, non avevamo soldi, così ho com-
prato il biglietto per andare in Mali. Arriva-
to in Mali ho cercato lavoro come muratore
e ho guadagnato abbastanza per comprare
il biglietto per andare Algeria; lì ho guada-
gnato un po’ di soldi per andare in Libia con
alcune altre persone.
Abbiamo pagato un arabo che ci ha porta-
to in un paese sulla strada per la Libia, ma
non c’erano più soldi per andare avanti; al-
lora abbiamo deciso di camminare. Abbiamo
iniziato a camminare alle otto di sera e sia-
mo arrivati in Libia alle sette di mattina, in
un una città che si chiama Ghat. Eravamo
tre gambiani e tre senegalesi. La mia testa
girava, non c’era acqua, non c’era niente da
mangiare, non avevo più forza. Poi un libico
ci ha visto.
Ti hanno lasciato passare alla frontiera?
Yaya:
Lì ci sono i militari e noi siamo entrati
per una stradina nascosta. Abbiamo chiesto
a quell’arabo dov’era la casa dei senegalesi
e lui ci ha portato in macchina, gli abbia-
mo dato un dinaro, pochi soldi. La casa dei
senegalesi prendeva tutti quelli che arriva-
vano. Quando arrivi dai a loro tutti i soldi.
Una volta, dopo, quando ho trovato da la-
vorare e ero libero, abbiamo fatto una riu-
nione per dare dei soldi per quelli che erano
dentro. Abbiamo formato una associazione
per aiutare gli altri che arrivavano e non
avevano persone che potevano aiutarli per
pagare. Quella casa era una prigione. Quan-
to tu arrivavi là non avevi più niente, allora
chiamavi la tua famiglia e quando i tuoi ti
mandavano i soldi loro ti facevano uscire. Io
sono rimasto in questa casa solo una setti-
mana perché c’era un mio amico lì in Libia;
l’ho chiamato lui e mi ha mandato i soldi.
Per il resto, loro ti portano da mangiare ma,
fino a quando tu non trovi i soldi, non puoi
uscire da questa casa: ti fanno rimanere lì
tanto tempo, certi ci sono rimasti due anni.
Io ho trovato lavoro nell’edilizia, mettevo i
ferri per le costruzioni; il proprietario era un
libico.
Samuel:
Guarda il camion che mi ha portato
fino in Libia
(mi mostra, dopo averla cercata
su Internet, la foto di un camion stracarico
di persone e bagagli)
. Io ci ho impiegato due
mesi per arrivare dal Ghana alla Libia.
Yaya:
Io ci ho impiegato un anno dal Sene-
gal, perché non avevo soldi e dove arrivavo
mi dovevo fermare per lavorare e guadagna-
re qualcosa.
Samuel:
Quando nel 2011 c’è stata la guer-
ra non c’era più una strada per tornare in
Ghana o in Senegal o in Nigeria, non potevi
più tornare indietro, non c’erano neanche
più aerei. Una notte ero a casa, sono venuti,
mi hanno detto di venire fuori e mi hanno
portato nel posto dove ci mettevano sulle
barche.
Tu, Yaya, hai detto che avresti voluto
tornare in Senegal…
Yaya:
Anche dove abitavamo noi, i soldati
sono venuti di notte, ci hanno preso tutto,
ci hanno caricato su un furgone e ci hanno
portato al porto per venire qui. C’era della
gente che scappava perché non voleva im-
barcarsi; li hanno presi per i piedi, li hanno
caricati sulle barche per farli partire. Dove-
vi andare per forza.
Samuel:
Anche a me è successo. Ma perché
hanno fatto così? Prima, quando parlavamo,
Yaya ha detto che Gheddafi aveva fatto un
contratto con l’Europa, ma poi ci sono stati
problemi e i libici hanno detto a tutti di an-
dare in Europa. Prima non si poteva partire,
poi con la guerra invece ci hanno costretti,
dicevano: “A noi libici non servite qua!”.
Yaya:
Siamo partiti venerdì 3 maggio, abbia-
mo fatto venerdì, sabato e domenica in mare;
domenica siamo arrivati a Lampedusa.
Samuel:
Eravamo sulla stessa barca, proba-
bilmente. A un certo punto si è rotta, sare-
mo stati in 950, forse di più. C’era troppo
caldo, era finita l’acqua.
Yaya:
C’era una ragazza nigeriana vicino a
me, era incinta e lei è morta lì.
Samuel:
Anche altre, e tu vedevi, ma non
potevi fare niente.
Vi hanno chiesto soldi per questo viag-
gio?
Yaya:
No, quando sono venuti a prenderci
hanno messo le mani nelle tasche e quello
che trovavano lo prendevano. Nelle mie ta-
sche hanno trovato 600 dinari. Prima della
guerra avevo mandato i soldi che avevo a
mia mamma; mi erano rimasti quei soldi e
se li sono tenuti.
Samuel:
Anche a me si sono presi dei soldi.
Ma ne avevo pochi: quando è cominciata la
guerra non c’erano più soldi. Il padrone ci
ha detto che la banca era chiusa e non aveva
niente per pagarci.
Come volete continuare questa conver-
sazione?
Yaya:
Io voglio parlare dell’accoglienza, dob-
biamo parlare dell’accoglienza. Prima era-
vamo in albergo a Mantova, poi a Quistello
e poi a San Biagio, dove è finita la nostra
accoglienza: è lì che abbiamo visto tutto.
Lì non è andata bene. Lì avrebbero avuto
la possibilità di aiutarci a lavorare. Il capo
del macello è venuto a cercare persone per
lavorare ma quelli della cooperativa che ci
accoglieva non hanno voluto mandarci.
Chi gestiva l’accoglienza lì?
Yaya:
Era un’associazione, una cooperativa
e capo era una donna che abita a Milano, ve-
niva a controllare ogni tanto. Un ristorante
ci portava da mangiare e, se non mangiava-
mo tutto, ti davano gli avanzi, ma non i tuoi,
mettevano insieme quelli di tutti e te li da-
vano a cena e, se ne restavano nei piatti, te
li davano a pranzo il giorno dopo. Abbiamo
detto che non siamo animali, io non mangio
quello che è rimasto nel piatto degli altri.
Quando ero a Quistello sono andato a Mi-
lano per la Commissione e mi hanno dato
parere negativo, così sono tornato e c’è stata
un’avvocata, che mi ha aiutato a fare il ri-
corso.
Vi aveva preparato qualcuno per la
commissione?
Yaya:
Lì nessuno, ma abbiamo avuto un in-
contro al Centro interculturale della Provin-
cia e ci hanno spiegato cosa dovevamo dire,
c’era anche la mediatrice, che ci ha aiutato.
E poi com’è andata?
Samuel:
è andata male. Erano tre persone
e il presidente chiedeva: “Perché hai lascia-
to il tuo paese e sei andato in Libia?”. Loro
non volevano sapere della Libia, volevano
sapere del tuo paese, perché sei andato in
Libia, per la guerra o per altri problemi. Ma
il mio problema in Ghana non era la guer-
ra o la polizia che voleva arrestarmi, il mio
problema era economico e non volevo dire
bugie, inventarmi della guerra, ho detto la
verità: sono andato in Libia per cercare la-
voro. Così hanno respinto tutto, hanno dato
parere negativo. Allora il capo del Centro in-
terculturale ci ha fatto fare ricorso. La mia
avvocata mi ha insegnato cosa dovevo dire
in tribunale, sono andato con lei, ma ci han-
200 euro e un biglietto
per la Germania
abbiamo iniziato a camminare
alle otto di sera e siamo arrivati in Libia
alle sette di mattina
non volevo dire bugie, inventarmi la
guerra, ho detto la verità: sono andato
in Libia per cercare lavoro