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no fatto aspettare ancora; poi hanno dato il
permesso umanitario a tutti quelli che ave-
vano avuto un parere negativo. Ma prima
era andata male. Stavamo male, tutti noi
che avevamo avuto un parere negativo non
pensavamo ad altro: essere qui senza docu-
menti è un grande problema.
Yaya:
Io sono andato là e ho trovato una don-
na che faceva da interprete. Io non parlavo
italiano neanche un po’, ma quando parla-
vano gli altri capivo e quello che io dicevo a
lei, lei non lo diceva alla commissione, non
traduceva giusto, forse non capiva bene; al-
lora io le rispondevo in dialetto: “No, tu non
hai capito”. Quella signora mi ha detto: “Ma
tu capisci l’italiano, allora!”. Poi mi hanno
chiesto perché mio padre non ha mandato
a scuola i miei i fratelli. Non capiscono che
da noi, se un genitore decide una cosa, tu
non puoi dire no, mancheresti di rispetto.
Se tuo padre dice una parola a tua madre,
tu non puoi intervenire e dirgli: “Perché fai
così!”. Il rapporto con i genitori non è come
qui da voi, in Italia. Io avrei voluto fare l’ar-
tista, ballare, fare musica; ho anche qui una
foto che mi ha mandato un mio amico, poi te
la faccio vedere: io facevo rap con dei miei
amici. E rompevo sempre a mia mamma con
questa cosa del rap, e lei mi ha detto: “No,
no, no, a me non piace”. E allora ho smesso,
non puoi disobbedire ai genitori da noi.
Ecco, in commissione volevano sapere per-
ché i miei non hanno mandato a scuola i
miei fratelli, io ho detto che non lo sapevo. E
loro insistevano per sapere il motivo e io ri-
petevo che non lo sapevo. Anch’io non volevo
mentire. Mi hanno detto: “Allora da voi non
c’è libertà, non c’è democrazia.” Ho risposto
che semplicemente non si passa davanti
ai genitori. Dopo un mese mi è arrivata la
risposta negativa. Io ci sono rimasto male,
sono andato in questura e una signora mi ha
detto di non preoccuparmi che mi avrebbero
dato comunque un documento.
Studiavate italiano mentre eravate in
accoglienza?
Yaya:
Io prima non volevo studiare italiano,
quando ero a Quistello. Non c’era niente nel-
la mia testa.
Samuel:
La testa quando sei così gira, gira:
pensi ai documenti, pensi a tante cose…
Yaya:
La signora che ci voleva insegnare
italiano veniva nella casa dove stavamo.
Quando lei veniva con i libri io prendevo le
mie scarpe e andavo ad allenarmi per gioca-
re a calcio. Allora questa signora si è arrab-
biata con me e non mi salutava più. Capivo
che aveva ragione lei: se uno ti dice studia
è perché ti vuole bene, vuole il tuo futuro.
Allora ho cominciato ad andare a scuola e
lei era contenta, mi diceva che ero bravo.
Tutti i giorni cercavo di trovare la forza per
andare a studiare. Dopo, quando ero a San
Biagio, prendevo tutti i giorni l’autobus per
venire a scuola in città.
Quello che mi ha fatto male di questa ac-
coglienza è che loro hanno fatto del bene
per noi, tutti a Mantova, ma quando questa
accoglienza è finita a febbraio… ecco, come
fai a mandar via così delle persone che non
sanno dove andare? Anche oggi c’è un sacco
di gente con questo problema che sta sof-
frendo. Non è che noi non volevamo rimane-
re in Italia, ma non avevamo un posto dove
andare: non puoi restare in stazione con la
tua roba. è per questo che abbiamo deciso
di andare via: io sono andato in Germania.
Finita l’accoglienza in febbraio, tu co-
s’hai fatto?
Yaya:
Abbiamo fatto una manifestazione. Ci
hanno detto che tutti avrebbero avuto cin-
quecento euro. Noi a San Biagio no; io ho
avuto duecento euro e il biglietto per la Ger-
mania, ma un biglietto non costa trecento
euro. Io non voglio litigare con le persone e
anche gli altri, così ho preso la mia strada
per andare.
Sono andato in Germania e ho fatto qual-
che giorno con un mio amico, sono andato
a Colonia, sono arrivato alle otto di sera e
ho visto una signora congolese. Le ho parla-
to in inglese, non sapevo che era congolese
perché parlava tedesco, ma lei non capiva,
allora le ho parlato in francese e ci siamo
capiti. Mi ha chiesto se avevo il documento
di viaggio, gliel’ho dato e ci ha portati a casa
sua con il mio amico, ma a casa aveva una fi-
glia che non ci voleva lì; hanno litigato e sua
mamma l’ha mandata a dormire a casa di
un’amica. La mattina dopo lei doveva anda-
re in chiesa e non poteva lasciarci a casa da
soli, aveva ragione, non ci conosceva. Così
siamo andati in chiesa con lei: era la prima
volta che andavo in una chiesa, sono musul-
mano. Siamo rimasti lì fino a sera e li ho
guardati pregare. Poi la figlia ha cambiato
idea e voleva che restassi con lei, io le ho
detto che non potevo. Il pastore ha detto che
ci avrebbe aiutato se ci fossimo fatti cristia-
ni e io ho detto no, sono musulmano, anche
se non c’è una grande differenza: voi crede-
te in Gesù e noi in Maometto, i miei amici
non è che noi non vogliamo rimanere
in Italia, non è questo, ma non
abbiamo un posto dove andare