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i nostri sistemi di accoglienza, cura e edu-
cazione insieme alla cultura e all’organizza-
zione di chi oggi in Italia opera nel sociale.
La seconda. Suggerisco di fare la tara a
quanto sto per scrivere; di inserire il mio
ragionamento in una cornice maniaco-de-
pressiva.
Da una parte tutto quanto fa (o comunica)
chi lavora, da qualunque posizione e con
qualsiasi ruolo, nell’ambito delle migrazioni
forzate va considerato una “questione di vita
e di morte”: la possibilità per chi fugge dal
proprio paese di rifarsi una vita dignitosa
“al di qua del mare” dipende molto dal tipo
di accoglienza che incontrerà e dalle scelte,
quotidiane, compiute da chi accompagna e
sostiene nei primi mesi la sua permanenza
nel nostro paese.
Ogni attore di questo processo, operatore
pubblico o del privato sociale, ha responsa-
bilità delicatissime e per questo deve cerca-
re di compiere al meglio il proprio lavoro.
Dall’altra non bisogna mai dimenticare che
al fondo, con le dovute evidenti differenze,
siamo tutti dei poveracci, loro che partono
e noi che li accogliamo, e quanto di buono
noi operatori facciamo dipende minimamen-
te da noi, dalla nostra organizzazione, dalle
nostre procedure e massimamente dal caso
e dalla sorte. Dalle circostanze della vita.
Luigi Monti è direttore della rivista
Gli Asini
,
che nel 2012 ha dedicato un dossier speciale
dal titolo “L’Africa in casa”, ripreso ora nel
numero 25, di gennaio-febbraio 2015, con una
seconda raccolta “Accogliere o respingere”.
Un paio di premesse
Due premesse necessarie a inquadrare le
considerazioni che sto per fare. La prima.
Non sono un esperto di politiche migratorie
né un sociologo dell’immigrazione. Tramite
un’associazione di promozione sociale inse-
gno italiano ad adulti stranieri e faccio atti-
vità di animazione territoriale in un piccolo
comune del modenese. L’unica esperienza di
lavoro diretto con richiedenti asilo è circo-
scritta a un anno di sostegno al percorso di
accoglienza e integrazione messo in piedi,
ai tempi della cosiddetta “Emergenza Nord
Africa” (Ena), dai servizi sociali del comu-
ne in cui insegno italiano, per 11 uomini e
donne nigeriani provenienti dalla Libia e
sbarcati sulle coste italiane ai tempi delle
cosiddette “primavere arabe”.
Non sono nemmeno uno storico dei paesi
africani (il continente da cui provengono la
maggior parte dei miei studenti) anche se
sarebbe doveroso raccogliere qualche infor-
mazione in più sulla storia, la letteratura, la
politica dei paesi d’origine di chi frequenta
la scuola.
Non so se l’intervento, circoscritto, a cui mi
è capitato di partecipare in quei mesi mi ha
portato a conoscere meglio loro -la loro cul-
tura di appartenenza- ma indubbiamente
mi ha permesso di comprendere meglio noi:
La lingua dell’esilio
Prima della primavera del 2012, a parte
quello che raccontavano male e confusa-
mente i media, solo in concomitanza di qual-
che emergenza politica o di qualche tragedia
umanitaria, non sapevo praticamente nulla
né della condizione giuridica e di vita dei
richiedenti asilo, né delle politiche e delle
pratiche attraverso cui essi entrano e per-
mangono in Europa.
In che modo sono arrivato a mettere a fuo-
co quel poco che ho poi capito dello stato
dell’arte delle politiche e delle pratiche
dell’asilo in Italia e il “quid” di quella pagina
confusa della storia dell’accoglienza cono-
sciuta col nome di Emergenza Nord Africa?
Attraverso la frustrante constatazione che
i miei studenti nigeriani non imparavano
l’italiano. Giovani, brillanti, con un livello
di scolarizzazione tutt’altro che disastro-
so, progredivano nell’apprendimento della
lingua molto più lentamente delle anziane
studentesse analfabete a cui pure in quel
periodo facevo lezione. La postura e l’atteg-
giamento che tenevano a scuola erano trop-
po omogenei, troppo simili per essere attri-
buibili solo al carattere di ognuno di loro.
Quella lentezza nell’apprendimento, quella
stanchezza costante, quella rassegnazione,
quella tendenza al lamento e alla recrimi-
nazione venivano solo dalle disastrose con-
dizioni sociali e politiche da cui fuggivano,
dalla ferita dell’esilio e dello sradicamento,
che tutti, più o meno violentemente, aveva-
no subito? O ferite, sradicamento e esilio si
impastavano a questioni di altra natura?
Uomini e fantasmi
L’accoglienza dalla prospettiva degli operatori
Quaderno nr. 3 della Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus
maggio 2015
Editor:
Monika Weissensteiner, Edi Rabini
Hanno collaborato:
Bettina Foa, Barbara Bertoncin, Maria Bacchi, Salvatore Saltarelli, Marianella Sclavi,
Anna Maria Gentili, Mohsen Farsad, Rosanna Sestito, Giulia Levi, Andrea Rizza, Sarah Baldiserra
Foto:
di Andrea Rizza e Fausto Fabbri, se non altrimenti indicato.
A pag. 10
Department for International Development, UK.
Di Borderline Sicilia alle pagg. 16, 19, 20, 35;
dei Girasoli alle pagg. 27-28; di Mantova solidale alle pagg. 31-32. Il disegno a pag. 7 è di Monika Weis-
sensteiner.
Il San Cristoforo di copertina è di Konrad Witz, Museo di Basilea
Grazie a Una città per la collaborazione e l’accesso al suo Archivio delle interviste
Grafica, impaginazione e realizzazione:
Società cooperativa Una Città, Forlì (
Stampa:
Galeati Imola (BO)
Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus
Via Bottai/Bindergasse 5
I-39100 Bolzano/Bozen
Tel. + Fax 39 0471 977691
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IBAN: IT91S0604511613000000555000;
BIC: CRBZIT2B059
Realizzato con il contributo di: Provincia Autonoma
di Bolzano, Regione Trentino Alto adige-Südtirol,
Città di Bolzano
Quaderno 1,
ottobre 2012
Quaderno 2,
dicembre 2013
gli atteggiamenti che tenevano a
scuola erano troppo omogenei, troppo
simili per essere attribuiti al carattere