Da Lampedusa al Brennero - page 26

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mafia, di tortura, di persecuzione politica
o razziale…) è diventata fra le minoranze
attive la parola a tutto tondo che sembra
spiegare ogni cosa e che in realtà, scansando
ogni complessità, non spiega proprio un bel
niente, elimina ogni progettualità, etichetta
e passivizza, offrendo al massimo un alone
di salvatore a chi con “la vittima” lavora.
Nei mesi di Emergenza Nord Africa è risul-
tato molto evidente: vittimizzare i profughi
significava alimentare la loro tendenza a
consumare tutte le spinte vitali e le energie
psichiche intorno al miraggio del permes-
so di soggiorno o peggio all’elemosina dei
pocket money, rendendoli completamente
dipendenti da chi poteva elargire loro quel
permesso o quell’elemosina.
È facile in questa sede contrapporre alla
categoria di “vittima” quella langeriana di
“saltatori di muro”. Quando Langer parlava
di “saltatori di muro” aveva in mente una
postura e una gamma di tecniche molto con-
crete. Non si trattava per lui di un concetto
romantico, una categoria dello spirito. Sal-
tatori di muro -coloro che riescono a distan-
ziarsi dalla propria condizione originaria
senza con ciò tradirla- erano per Langer tut-
ti coloro che, partendo da una determinata
posizione, magari di oppressione, sanno e
vogliono andare oltre, lavorare per il cam-
biamento. È con costoro, assistenti o assi-
stiti che siano, che vale la pena progettare,
rimanere in movimento, condividere inquie-
tudini e aspirazioni di liberazione.
passaporto? poter stipulare un contratto di
lavoro anche senza permesso di soggiorno?);
canali umanitari che garantiscano naviga-
zioni sicure in quella pozzanghera che è il
Mediterraneo; una riforma radicale della
legge sull’immigrazione e l’introduzione
di una normativa organica sul diritto d’a-
silo, nonché uno stanziamento di risorse
sufficiente a rendere reale ed esigibile tale
diritto; la sperimentazione di forme di ac-
coglienza improntate all’autorganizzazione
dei territori, magari attraverso reti in grado
di accogliere in famiglia uomini e donne in
fuga da condizioni politiche, economiche e
sociali disastrose.
Detto questo, non provoca in me minor scan-
dalo dello stillicidio di morti nel Mediterra-
neo l’aiuto peloso o corrotto messo in piedi
dai nostri sfibrati sistemi di assistenza, cura
e educazione, che invece di aiutare i profu-
ghi a ricucire gli strappi dell’esilio, produce
un esercito di fantasmi destinato a vagare
per mezza Europa, incapace di ricostruirsi
una vita al di fuori dei grovigli delle nostre
burocrazie assistenziali.
Che fare?
Ai miei studenti, in quei mesi di Emergen-
za Nord Africa, non ho saputo dire niente di
più rivoluzionario che di iniziare a sopravvi-
vere in autonomia “come se” gli aiuti non ci
fossero stati. Come farlo non ne avevo e non
ne ho la più pallida idea, dato che non sono
mai stato profugo in un paese straniero. Se
non qualche indicazione spicciola: compren-
dere i tratti generali della loro condizione
giuridica e del programma di aiuto in cui
erano inseriti, imparare la lingua, guar-
darsi intorno e stringere qualche amicizia
funzionale allo spirito e alla sopravviven-
za. E soprattutto iniziare a pensare come
campare dopo che avessero ottenuto il tanto
agognato permesso di soggiorno: quel pezzo
di plastica avrebbe garantito loro “solo” la
possibilità di rimanere regolarmente in Ita-
lia, non certo forme di sostegno al reddito,
né tantomeno una casa o un lavoro.
A me stesso e agli “assistenti” che in quei
mesi ruotavano intorno a loro o a coloro
che oggi proseguono il lavoro in una corni-
ce che sta purtroppo mettendo a sistema la
disastrosa gestione emergenziale dell’Ena
non so dire niente di più rivoluzionario del
piccolo prontuario che misi a punto in quei
giorni, per la sopravvivenza mia e dei miei
assistiti.
Primo: rompere le scatole verso l’alto. Verso
l’alto significa pretendere da chi sta imme-
diatamente o molto sopra di noi -coordina-
tori, dirigenti comunali, assessori, respon-
sabili della questura, ministri…- quelle
condizioni che rendono praticabile il nostro
lavoro e dignitosa la loro sopravvivenza.
Distribuire con lucidità e fermezza, respon-
sabilità e compiti in proporzione al ruolo di
potere che si occupa.
Secondo: praticare l’obiettivo. Secondo una
bellissima definizione del sindacalismo mu-
tualistico delle origini, nel mentre che si
rompono le scatole verso l’alto è fondamen-
tale praticare dal basso. Sforzarsi di realiz-
zare su piccola scala, “qui e ora”, ciò che si
pretende, per legge, dall’alto.
Terzo: non perdere occasioni per mostrare
l’evidente trasversalità dei problemi e quin-
di svincolarsi da ogni approccio specialistico.
Disoccupazione, precarietà, degradazione
dei contratti di lavoro, difficoltà di accesso
ai servizi per la prima infanzia, affanno del-
la scuola, per citare solo alcuni dei problemi
del territorio in cui lavoro, valgono per gli
stranieri come per gli italiani. La precarietà
della loro condizione giuridica espone i pri-
mi a una ricattabilità che consente di vede-
re meglio problemi che in realtà riguardano
tutti. E da tutti e per tutti vanno affrontati.
Quarto: operare per una liberazione reale,
non solo giuridica, delle persone con cui
lavoriamo. Operare “come se” dovessimo
rispondere solo a noi stessi: insegnare ita-
liano “come se” ciò significasse aumentare le
capacità dei nostri studenti di scrivere, par-
lare e comprendere la nostra lingua; strut-
turare accompagnamenti sociali “come se”
ciò significasse metterli il prima possibile
nelle condizioni di camminare sulle proprie
gambe; progettare forme di socializzazione
al lavoro “come se” questo significasse crea-
re le condizioni per trovare un’occupazione
(e un contratto) reale. Insomma “come se”
il lavoro educativo e assistenziale fosse un
lavoro vero (e capace di rendere pienamente
soddisfatto chi lo fa).
Quinto: cercare alleanze con “i saltatori di
muri” non con “le vittime”. “Vittima” (di
Yang è nato a Jinan, nel Nord della Cina, nel 1979. A 11 anni è arrivato in Italia insieme alla madre:
è stato lavapiatti, venditore ambulante sulle spiagge, studente bocconiano, traduttore simultaneo per
ministri, imprenditori e registi internazionali, attore di teatro, tv e cinema e recentemente inviato
speciale de “Le Iene”. Yang è un cinese alto: 189 cm. Yang è un cinese bello. Yang non sa chi è. Attra-
verso la storia di Tong Men-g -primo spettacolo prodotto in Italia con protagonista un attore di origine
cinese- Yang ha fatto un viaggio alla ricerca delle sue origini, del rapporto con la sua madrepatria,
delle storie e delle vite dei suoi antenati; della “riprogrammazione culturale” avvenuta in Italia, delle
contraddizioni e possibilità della condizione di uomo orientale/occidentale.
(foto di Ilaria Costanzo)
vittimizzare i profughi significava
alimentare la loro tendenza
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